A due mesi dal voto europeo l’impressione è che questa volta ci sia in tutta Europa molta più attenzione al turno elettorale ed al suo possibile risultato che, rispetto al passato, presenta molte più incertezze.
Si parla di una sinistra in crisi e – se si replicassero i più recenti voti nazionali – di una probabile esplosione di voti per i diversi partiti di destra che, in molti Paesi, assumono anche connotazioni xenofobe e nazionaliste, ma solo facendo i conti finali si vedrà cosa cambierà negli equilibri di Bruxelles.
Paradossalmente un forte aumento dei partiti “ultrà” favorirà la compattezza dei moderati, anche perché ciascun Paese ha frange estremiste molto particolari e contrapposte tra loro, dunque è difficile che esse riescano a trovare una piattaforma comune, ammesso che siano dei partner affidabili.
Poche le certezze, quindi, ma una delle più fondate è che comunque sarà ancora il PPE l’ago della bilancia, indispensabile per costruire qualsiasi maggioranza. Il PPE è però un grande contenitore composto da una massa multiforme di partiti che si ritrovano nella “casa comune” ma spesso con posizioni contrastanti, raccogliendo istanze nazionali “centriste” ma con sensibilità e tendenze anche molto diverse, come si nota già oggi sul voto a diversi provvedimenti, l’ultimo per le case “eco-green”.
In quasi tutti i Paesi UE il voto di giugno sarà proporzionale e con i voti di preferenza, quindi conteranno non solo i voti espressi ai partiti delle diverse “famiglie” politicamente riconoscibili, ma anche “chi” saranno personalmente gli eletti, perché all’interno stesso delle liste – e soprattutto nel PPE – convivono personaggi profondamente diversi tra loro.
In sede di formazione della Commissione (governo) europea bisognerà temere conto di tutte queste variabili, ed è probabile che sarà ancora il PPE ad esprimere la presidenza, ma che nel ruolo venga riconfermata Ursula Von der Leyen è tutto da dimostrare.
Ufficialmente è lei la candidata del PPE, così come è stato deciso dall’ultimo vertice di Bucarest, ma alla fine la sua candidatura (che appariva scontata, un po’ come Biden negli USA) è stata appoggiata solo da poco più di 400 esponenti del partito sugli 800 votanti perché, oltre al centinaio di voti apertamente contrari, circa 300 delegati hanno “marcato visita” non partecipando alla votazione. Un segnale preciso di non gradimento che avrà il suo peso, ma che sarà legato direttamente a chi verrà alla fine effettivamente eletto al parlamento europeo.
La von der Leyen appare più debole di qualche tempo fa, anche se alla fine potrebbe emergere come elemento di collaudato compromesso, pur se la maggioranza di governo dovesse risultare diversa da quella attuale. Altri, per contro, insistono che se ci sarà questo cambiamento la von der Leyen sarebbe la meno adatta a gestirlo. Proprio la Meloni, d’altra parte, ha “scommesso” su di lei per un futuro feeling tra conservatori e PPE con una scelta che un anno fa sembrava aprire le porte europee alla leader italiana, ma che oggi rischia di farsi imbarazzante.
Come sempre accade quando su un personaggio si addensano le critiche, è infatti tornato di prepotente attualità lo “scandalo Pfizer” che ha appunto al centro la figura della von der Leyen per le sue concessioni e rapporti personali e diretti con la multinazionale americana. Un affare colossale di decine di miliardi gestito “a trattativa privata” e coperto da troppi segreti, con sullo sfondo la figura ingombrante del marito della stessa presidente, dirigente Pfizer e poi comunque responsabile di società ad essa collegate.
Sono più di due anni che se ne parla con troppe incertezze, allusioni, provvidenziali dimenticanze che hanno accompagnato la vicenda mettendo sempre più in difficoltà la leader popolare per le sue scelte.
Come già ho scritto su questo tema, ci sono state denunce sull’acquisto “a scatola chiusa” di 20 miliardi di euro per vaccini Pfizer trattato direttamente e personalmente dalla von der Leyen con il presidente della Pfizer scartando offerte – come quella di AstraZeneca – infinitamente meno onerose. Anche il New York Times ha querelato la presidente sia per i fatti incriminati che per la violazione della Carta dei diritti UE, che garantiscono il diritto di accesso ai documenti. Tutto inutile, con la Giustizia europea che si è chiusa a riccio, per molti in modo palesemente illegittimo, senza dare risposte convincenti e mentre l’interessata ha continuato a tacere senza mai dare risposte chiare alle contestazioni che le sono state rivolte anche in sede di parlamento europeo.
“Rumors” che – rispolverati alla vigilia della campagna elettorale – possono sembrare strumentali, ma che appunto sottolineano come una via giudiziaria potrebbe essere il grimaldello alternativo per bloccare la procedura di rielezione, soprattutto se il PPE subisse un ridimensionamento a livello elettorale.
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