Nel primo trimestre il Pil europeo è cresciuto dello 0,1% sotto le stime che si attestavano allo 0,2% ma comunque in miglioramento rispetto alla leggera contrazione del quarto trimestre. Anche il Pil americano comunicato l’altro ieri è stato positivo con una crescita dell’1,1% in rallentamento dal 2,6% del quarto trimestre. In questo caso la sorpresa positiva è stata la spesa per consumi cresciuta del 3,7% e in miglioramento dall’1% del quarto trimestre.



Per quanto si registrino segni di rallentamento, l’appuntamento con la crisi o la contrazione è stato rimandato ancora. Nessuno sa con certezza quando arriveranno i numeri negativi per il Pil, in compenso possiamo già dire che questa è la crisi più anticipata di sempre. La domanda, quindi, che occorre farsi è cosa sia successo e come mai i consumi siano ancora così forti.



Le forze in campo sono due. La prima è un mercato del lavoro ancora estremamente forte che produce in casi spesso eclatanti aumenti salariali significativi. È il risultato di diversi fattori. Il numero eccezionale di uscite dal mercato del lavoro del 2020/2021 quando le imprese, coperte di incentivi, hanno lasciato a casa chiunque avesse i requisiti per una pensione. Poi è arrivata la guerra commerciale che ha riportato in primo piano la manifattura nei Paesi sviluppati. La quantità di risparmi accumulati durante i lockdown ha causato un boom di domanda. La forza del mercato del lavoro sta durando più a lungo di quanto veniva ipotizzando assumendo un ciclo economico “normale”.



La seconda forza in campo è che i Governi stanno ancora spendendo a piene mani: sussidi, contributi, bonus e non solo. La Germania ha appena riconosciuto ai lavoratori pubblici un aumento salariale reteroattivo del 5% reale. Gli Stati Uniti nel primo trimestre 2023 hanno fatto un deficit che in tempi normali sarebbe stato fatto in un anno. All’inizio di quest’anno sono stati adeguati all’inflazione non solo tutto i sussidi, ma anche le aliquote fiscali per il calcolo delle tasse sui redditi. L’inflazione e gli incrementi salariali spostano, “automaticamente”, i lavoratori nelle fasce di reddito più alte dove si pagano più tasse. L’adeguamento al rialzo delle fasce per il calcolo delle tasse abbassa l’imposizione fiscale negli Stati Uniti. Tutto questo mette o rimette nelle tasche delle famiglie soldi per importi significativi e a sua volta alimenta i consumi. Le variazioni dei tassi di interesse in molti casi o non impattano direttamente o impattano limitatamente i redditi delle famiglie che, per esempio, hanno in media mutui a tasso fisso piuttosto che variabile.

La forza del mercato del lavoro è una funzione della crescita economica e, in questo caso, si può ipotizzare un rallentamento. Nel caso della spesa pubblica lo scenario può continuare fino a quando il mercato rimane convinto che l’inflazione sia destinata “naturalmente” a scendere al 2% e fino a che non si perde la fiducia sulla capacità dei Governi e delle banche centrali di ridurre la crescita dei prezzi. Tra un paio di mesi, forse meno, saremo nel pieno della discussione sull’aumento del tetto del debito americano. È probabilmente l’appuntamento più importante per capire se e come i Governi intendono uscire dalle politiche fiscali iniziate con la pandemia.

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