Con un disordine mondiale che al momento appare irrisolvibile e sempre più preoccupante per le guerre in corso, che sembrano allargarsi senza trovare neppure periodi limitati di tregua, è possibile chiedersi quale sarà il futuro dell’Unione Europea? E in questo quadro, quale sarà il futuro dell’Italia, uno degli stati fondatori dell’UE?
L’ultimo numero della rivista italiana più accreditata in campo geopolitico, Limes, ha in copertina un titolo che mette i brividi alla schiena: “Stiamo perdendo la guerra”. E nell’editoriale sono elencati sette punti in cui traspare l’irresponsabilità di una classe dirigente che non riesce a cogliere la realtà di quanto sta accedendo.
Ascolteremo presto più dettagliatamente questa tesi e al momento, per quanto riguarda l’Italia, restiamo stupefatti che, oramai, a quattro mesi dalle elezioni europee, le cosiddette forze politiche italiane (un vago ricordo dei partiti che esistevano prima del 1994) continuino a fare la loro battaglia casalinga per chi avrà più voti e quindi sistemare le questioni italiane, di maggioranza e minoranza, mentre discutono pochissimo, quasi marginalmente, di quanto possa accadere in Europa.
E soprattutto su quali prospettive politiche si debba muovere l’Europa, magari rivedendo la funzionalità delle sue istituzioni e dei suoi trattati, e ponendosi nuovi obiettivi nel mutamento epocale in corso.
Sembra che gli attuali apparati politici italiani (quello che resta dei partiti) non siano neppure sfiorati dal fatto che i sondaggi assegnano la maggioranza relativa al “partito dell’assenteismo”, con il 41% di “non voto”.
In più, sembra quasi normale una “rivolta dei trattori” come quella avvenuta nelle due settimane passate e non si tenga conto di quello che sta accadendo in Francia da tre anni, della “questione balneare” in Italia, dei salti mortali che si fanno in Spagna con maggioranze anomale, della perdita di consensi dei grandi partiti tedeschi che erano il traino dei valori e delle visioni politiche che hanno portato subito dopo la guerra al processo di integrazione europea.
L’elenco delle proteste verso Bruxelles, quelle passate e quelle future che si possono immaginare, appare lunghissimo e crea l’incertezza e la diffidenza che caratterizza l’opinione pubblica dei Paesi aderenti all’UE, non di quella europea, che Lucio Caracciolo seccamente smentisce: “L’opinione pubblica europea non esiste, esistono ventisette opinioni pubbliche”.
Non era solo Bettino Craxi, fin dal 1997, a prendere le distanze da un progetto congegnato in modo non più corrispondente alla concreta realtà delle economie e degli equilibri sociali che non possono essere facilmente calpestati.
Un grande sociologo italiano, Luciano Gallino, un “olivettiano” per definirlo sinteticamente, quando scoppiò la crisi finanziaria del 2007 e 2008 sulle due sponde dell’Atlantico scrisse un libro dal titolo emblematico, Il colpo di stato di banche e governi. Il sottotitolo era ancora più crudo e secco: L’attacco alla democrazia in Europa. Gallino era perentorio nei suoi giudizi: “È stato favorito lo sviluppo senza limiti delle attività speculative dei grandi gruppi finanziari. Aver lasciato il potere di creare denaro per nove decimi alle banche private è un difetto che sta minando alla base l’economia”. Ci si stupisce di fronte alle proteste verso l’Unione Europea e i singoli Stati?
Forse bisognerebbe approfondire queste tesi per comprendere la frenata dell’integrazione europea, la lunga crisi e l’unica risposta del NextGenerationEu rispetto all’indifferenza dei singoli Paesi europei all’idea di Europa che avevano avuto i fondatori come Schuman, Adenauer e De Gasperi.
A guardare bene quello che sta pesando oggi sul ruolo che ha e dovrebbe avere in futuro l’Europa è la sua storia rovesciata negli ultimi anni. Ricca di ideali all’inizio e poi lentamente sempre più legata a interessi finanziari, che hanno inquinato l’economia, ma hanno anche cancellato la politica.
Negli anni Cinquanta, la sequenza dei trattati, dalla CECA al Trattato di Roma, che istituiva l’UE, a quello che creava il Parlamento europeo nel 1958, davano l’impressione di una strada che aveva una meta precisa: una vera integrazione europea, con una costituzione, un parlamento e un governo che realizzassero un modello di società come era stato pensato dopo le due tragedie delle guerre mondiali.
Il Trattato di Maastricht del 1992 non bastava già più a realizzare uno Stato che avesse un ruolo autonomo dalle grandi potenze. Un Pil complessivo di oltre 18mila miliardi deve poi essere sorretto da una politica estera comune, da una difesa comune, da una politica economica che sappia coniugare l’interesse generale alle realtà particolari, così come si doveva pensare non solo all’unità monetaria, ma a un politica fiscale omogenea e soprattutto alla lotta alle diseguaglianze all’interno di ogni Stato e tra Stato e Stato.
Era un obiettivo difficile? Nessuno lo mette in dubbio, ma il tentativo andava fatto a ogni costo, perché dopo la Caduta del Muro di Berlino non “finiva” la storia, ma ne cominciava un’altra, più complicata, e si poteva ipotizzare, tenere presente che si sarebbe creato un altro ordine mondiale.
Oggi, mentre si cerca questo nuovo ordine faticosamente, l’Europa dove può collocarsi? Se, fatto non impossibile, finisse anche l’atlantismo, l’alleanza storica tra le due sponde dell’Atlantico che ha caratterizzato tutto l’ultimo dopoguerra, come si collocherebbe l’Europa?
Chi delle nuove potenze egemoni potrebbe vedere in 27 Stati diversi, uniti da singoli trattati, un interlocutore con cui stabilire un rapporto rilevante di qualsiasi tipo?
Forse, facendo gli scongiuri, quando sarà raggiunto il nuovo ordine mondiale o comunque un compromesso accettabile, l’Europa degli Stati separati dovrà fare i conti con le sue contraddizioni e con problemi sociali che potrebbero diventare irrisolvibili.
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