Nessuno ha il coraggio ma soprattutto nessuno sembra avere interesse a mettersi di mezzo nella guerra tra Israele ed Hamas. Una guerra nata all’insegna della vendetta, come ha specificato il premier israeliano Netanyahu nel suo primo discorso alla nazione dopo il 7 ottobre. Non è in discussione il diritto all’autodifesa di Israele, né la strategia di Hamas da sempre orientata a farsi scudo della popolazione civile palestinese. Ma nella realtà l’intervento di IDF ha ormai ben poco di chirurgico, e il paradosso dell’uccisione da parte dei soldati israeliani di tre ostaggi che, probabilmente in fuga, correvano disperati e a torso nudo sotto la protezione di una bandiera bianca verso quelli che ritenevano essere i propri salvatori, la dice lunga su cosa sia diventata la “operazione militare” del governo Netanyahu a Gaza.
E come tacere del tiro al bersaglio nei confronti di chi ha trovato rifugio nelle chiese cristiane della Striscia in risposta al quale il massimo della reazione internazionale è stato un fin troppo timido tweet del ministro degli Esteri italiano, quasi più preoccupato di disturbare le manovre delle forze armate israeliane che non di denunciare la violazione palese del diritto internazionale e del diritto di guerra come rimarcato dallo stesso patriarcato di Gerusalemme e come ammesso persino dal capo di stato maggiore dell’esercito di Israele.
Nessuno ha il coraggio di interporsi, come vorrebbe il compito che fonda l’esistenza stessa della comunità internazionale delle Nazioni Unite. Stati Uniti e Regno Unito, più credibilmente, hanno manifestato ad Israele la necessità di un cessate il fuoco duraturo, ma dovranno fare i conti con un governo israeliano che probabilmente antepone la sopravvivenza della propria formula politica e del solo Netanyahu allo stesso destino di Israele. Sono gli alleati di Israele, gli occidentali per primi, quelli che hanno sempre sottolineato la natura di “unica democrazia” nel Medio oriente dello Stato fondato dopo la Shoah, che in questo momento devono prendere l’iniziativa e chiarire nel rapporto con la nazione ebraica che un’ingiustizia non può riparare un’ingiustizia.
Nessuno potrà un domani difendere le ragioni di Israele con successo, se oggi lasciamo che il tornaconto politico contingente impedisca un accordo sulla liberazione degli ostaggi e la ripresa del dialogo con chi, nel popolo palestinese, è disponibile a riconoscere Israele e un’oggi apparentemente impossibile comunanza di destini.
Forse qualcuno dovrebbe far riflettere Benjamin Netanyahu sulla necessità di farsi da parte per il bene di Israele e in nome di una prospettiva di pace vera.
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