Una lotta senza quartiere in tutto il Paese per riuscire a controllare miniere e petrolio. Una lotta che sta mettendo in pericolo 25 milioni di persone, alle prese con gravissimi problemi di alimentazione. Si muore di fame in Sudan durante la guerra civile fra l’esercito di Al Burhan e le milizie di Dagalo (Hemetti), le RSF (Forze di supporto rapido), e nessuna delle parti in causa vuole cedere. Infatti, si continua a combattere dappertutto con il pericolo che il Paese diventi una nuova Libia, spaccata in due.



In realtà, spiega Marco Di Liddo, direttore del CeSI, Centro studi internazionali, i russi, che aspirano a realizzare una base navale a Port Sudan e hanno mantenuto i contatti con entrambe le parti in causa, potrebbero cercare di mettere d’accordo i contendenti, facendo in modo che si spartiscano le risorse economiche senza dividere in due lo Stato. Ma non è così facile. Così come sarebbe complicato organizzare una missione dell’ONU, che avrebbe bisogno di una forza di almeno 20mila uomini. Il risultato è che si spara ancora e la gente comunque continua a morire o a non avere niente da mangiare.



Qualcuno prospetta per il Sudan una sorta di modello Libia: le RSF di Hemetti che governano a ovest, in particolare nel Darfur, Al Burhan che si tiene la parte est. C’è il pericolo che il Paese si spacchi in due?

Non è solo una suggestione. Però c’è una differenza sostanziale con il contesto libico: c’è meno omogeneità. In Libia ci sono tre grossi conglomerati: le milizie dell’ovest, intorno al governo di Tripoli, quelle dell’est intorno ad Haftar, espressione della Cirenaica, e il Fezzan nelle mani dei Tuareg e dei Tebu. In Sudan, invece, non esiste una prevalenza netta di una milizia in un particolare quadrante del Paese.



Quali sono le zone di influenza ora?

La capitale del Sudan è attraversata dal Nilo, è divisa in tre grandi agglomerati: a sud Khartum, a nord-est Omdurman e poi East Nile. In tutti questi centri ci sono quartieri controllati da RSF e altri controllati da Al Burhan. In Darfur le RSF hanno una posizione dominante, ma questo non vuol dire che controllino interamente il territorio: devono lottare contro il Movimento di liberazione del Darfur, contro le milizie orbitanti intorno a due grandi gruppi etnici, i Fur, che danno il nome alla regione, e gli Zaghawa, tribù di origini ciadiane.

È così anche nel resto del Paese?

Nel Kordofan e nello stato del Nilo c’è la stessa stratificazione: forze armate contro RSF e poi i singoli movimenti locali, fazioni diverse che sostengono Hemetti o Al Burhan. Una situazione estremamente complicata. In Darfur le RSF controllano i principali centri e le miniere più importanti, fuori dai quali la guerra imperversa. È tutto molto più frammentato che in Libia.

È possibile comunque che alla fine, per salvaguardare i loro interessi economici, le parti decidano di spartirsi il Sudan?

I due contendenti hanno un nemico comune. Sono i movimenti della società civile, che vogliono una riforma del Sudan in senso liberale e democratico. Anni fa si è provato a realizzare un governo di unità nazionale con i civili, poi Al Burhan li ha cacciati. Il motivo è semplice: il fronte civile aveva chiesto che l’esercito abbandonasse il controllo delle principali risorse industriali e naturali del Paese. In risposta, sono stati tutti arrestati. Le forze armate in Sudan sono come quelle egiziane: controllano l’import, l’export, la tv, esattamente come in Egitto.

Il sistema dipende dai militari?

Sì. Le RSF erano uno strumento di Al Bashir, l’ex presidente del Sudan, per uccidere i ribelli di Darfur in cambio di miniere d’oro e siti di raffinazione. Quando è arrivato Al Burhan, più ingordo, ha denunciato questo accordo perché voleva riprendersi il controllo delle miniere. In questo contesto si potrebbe raggiungere un’intesa per la spartizione delle risorse, ma bisogna vedere chi fa da garante.

Appunto, chi può fare da garante, chi può cercare di mettere d’accordo le parti in causa?

La Russia ha avuto un ruolo molto ambiguo in Sudan: ha sostenuto sia le RSF, che le servivano per il traffico d’oro e il controllo delle miniere, sia Al Burhan, che comprava armi russe e che era il tramite per costruire una base russa a Port Sudan. Due anni fa, infatti, i sudanesi stavano per firmare un’intesa con Mosca. Hanno desistito perché sono intervenuti gli americani che hanno bloccato tutto promettendo aiuti che poi non sono arrivati. Visto che gli USA non hanno mantenuto le promesse, però, Al Burhan è tornato a parlare con i russi.

Quindi a mediare può essere Mosca?

Proprio loro, i russi, con gli emiratini, possono far sedere tutti al tavolo per cercare un accordo. Le RSF potrebbero controllare le miniere nel Darfur, Al Burhan il petrolio. E tutto ciò senza dividere in due il Paese: non conviene perché quando nasce un nuovo Stato, se non viene riconosciuto, può avere problemi a livello di commercio internazionale.

I russi ci guadagnerebbero perché realizzerebbero il loro hub a Port Sudan?

Sì, in futuro potrebbe diventare un punto di appoggio per la Marina, anche se per ora a loro basta avere una presenza stabile nel Mar Rosso.

Questa guerra ha già provocato milioni di sfollati, possono ingrossare il flusso di migranti verso l’Europa?

Ci sono 7 milioni di sfollati interni e poco meno di un milione che sono usciti dal Paese. La guerra ha creato una situazione di caos ed emergenza, in cui le attività criminali, come quelle dei trafficanti di uomini, sono favorite. Può esserci un aumento connaturato delle migrazioni verso l’Europa, ma non degli sfollati, dei disperati del Darfur e del Kordofan, che non hanno abbastanza risorse. Migrano gli abitanti delle grandi città, da El Fasher a Khartum, dei centri che sono collegati un po’ meglio. Qualche segnale si vede già. E qui la componente dei rifugiati politici prevale su quella economica: per questo l’Europa non può mandarli via, ha firmato accordi per la protezione dei rifugiati.

Ogni giorno si sprecano allarmi inascoltati sulla carestia che attanaglia il Paese, di cui nessuno sembra volersi fare carico. Quanto è grave la situazione?

C’è una situazione di gravissima insicurezza alimentare per circa 25 milioni di persone. Un dato che parla da solo. È difficile fare entrare gli aiuti nel Paese. O si scende a patti con RSF e forze armate affidando loro la distribuzione, con il pericolo che si tengano gli aiuti e li diano ai soldati, oppure bisogna impegnarsi a livello ONU per organizzare una missione e garantire corridoi umanitari. Ma c’è bisogno di almeno 20mila uomini.

Cosa dovrebbe succedere perché l’ONU si muova?

Le Nazioni Unite possono muoversi con una risoluzione, ma poi l’intervento tocca agli attori locali, alle nazioni confinanti: ci vorrebbe una missione dell’Unione africana che metta insieme ciadiani, etiopi, ivoriani, ruandesi, che si dia degli obiettivi, a partire dalla messa in sicurezza di Khartum. Controllare un Paese immenso come questo con 20mila uomini è utopia. Il problema, però, è che anche per stabilizzare la capitale ci vorrebbe una missione di law enforcement, con una copertura aerea.

(Paolo Rossetti)

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