Lo scenario ipotizzato dall’istituto di ricerca olandese Clingendael è apocalittico: le condizioni attuali del popolo sudanese sono tali da prevedere entro l’estate 2024 la morte di 2,5 milioni di persone per fame. La guerra per il controllo del Paese tra le forze del presidente provvisorio Al Burhan e le RSF (Forze di supporto rapido) del suo rivale Dagalo (detto Hemetti) sta aggravando a dismisura i problemi della popolazione, costretta ad affrontare una carestia dai contorni devastanti.



Una situazione, spiega Marco Di Liddo, direttore del CeSI (Centro studi internazionali), ancora sostanzialmente dimenticata dalla comunità internazionale, che nella sua lista di priorità ha Palestina e Ucraina e non certo il Sudan. La prospettiva, purtroppo, è che i combattimenti continuino ancora a lungo, in un territorio diventato irraggiungibile per le organizzazioni internazionali e che quindi non riceve aiuti. Secondo quanto annunciato dal ministero della Sanità locale, per far arrivare medicinali ad Al Fashir, nel Nord Darfur, venti tonnellate di materiale sono state lanciate dal cielo.



Il problema non è solo la fame, ma anche la malaria, la tubercolosi, le infezioni da HIV. Tutto questo mentre i Paesi interessati al Sudan pensano ad altro: è tornata sul tavolo l’ipotesi di una base navale russa nel Mar Rosso, proprio a Port Sudan, anche se la sua eventuale realizzazione sembra ancora lontana.

Nonostante la guerra imperversi in Sudan, si riparla dell’ipotesi di una base russa a Port Sudan: 300 uomini su un’area concessa per 25 anni, inizialmente con quattro navi. Un progetto che si realizzerà?

È una storia vecchia, al momento il progetto è bloccato per mancanza di fondi. E poi l’attuale giunta militare al potere in Sudan ha ricevuto pressioni molto forti dagli USA per mettere il veto a questa iniziativa. Se ne discute da anni, ma il progetto è in stand-by. I russi vagliano anche l’Eritrea a riguardo: vorrebbero avere un avamposto logistico nel Mar Rosso che garantisca una presenza, seppur minima, in quel quadrante.



In questo momento si parla soprattutto di attacchi nel Nord Darfur, ad Al Fashir, e si prevede una carestia da 2,5 milioni di morti. Una previsione credibile?

L’emergenza alimentare è già una realtà e, con il conflitto, i fattori di vulnerabilità del Paese peggiorano. La previsione del centro studi olandese è realistica. Nazioni Unite, FAO, World Food Programme e altri donatori internazionali sono consapevoli della situazione, ma in un teatro con una guerra civile così profonda diventa difficile attuare una strategia di resilienza. Non si riesce a entrare nel territorio per portare gli aiuti. Per attuare politiche di supporto umanitario ci deve essere una cornice minima di sicurezza che qui manca. Se poi a questo si aggiunge un’attenzione internazionale più spiccata verso altri focolai, ecco la ricetta per la crisi perfetta.

Il ministero sudanese avrebbe lanciato 20 tonnellate di aiuti medici con un aereo: è la conferma che non si possono raggiungere i territori in cui si combatte? Oltre alla fame si parla di malaria, tubercolosi, HIV.

Il Paese è allo stremo di suo quando le cose “vanno bene”, figurarsi ora con la guerra che si trascina da tempo. La diffusione delle malattie è all’ordine del giorno. Il problema vero è la fame, la carestia. Parliamo di persone che di per sé stanno male, non hanno accesso a servizi di base, e ora si trovano anche nel mezzo di un conflitto.

Ad Addis Abeba si sono riuniti i movimenti che fanno parte di Tagadum, hanno fondato il Consiglio di coordinamento delle forze civili democratiche. Esiste un Sudan che possa rappresentare un’alternativa alle fazioni che si stanno combattendo?

Non credo. Queste forze non sono in grado di proporre un’alternativa. Sono la voce di chi rifiuta le logiche di Hemetti e di Al Burhan, ma sono deboli politicamente. Ci hanno provato quando è stato mandato via Al Bashir: è stato permesso loro di svolgere alcune attività, ma non sono mai entrate nei processi decisionali. Non appena il loro peso è cresciuto, le forze armate le hanno immediatamente rimesse a posto. La loro capacità di agire sul territorio in assenza di un supporto esterno importante è pari a zero.

Nella guerra giocano un ruolo anche i movimenti islamici? Secondo alcuni influenzerebbero chi guida l’attuale governo. È così?

Fin dai tempi della rivoluzione sudanese nel 1979, che vide l’alleanza dei militari di Al Bashir e l’espressione locale dei movimenti islamisti, il rapporto tra islamismo militante e forze armate è stato di amore-odio: i militari usavano questi movimenti salvo poi scaricarli. Lo stesso discorso è capitato adesso. Durante la prima fase di ostracizzazione di Al Bashir, i movimenti islamici provarono a diventare un punto di riferimento per la protesta. Ma fallirono e optarono per una tregua. Al Burhan parla con loro ma per controllarli, per ottenere maggior supporto da una parte della popolazione, è tutto strumentale alla lotta alla RSF.

Dal punto di vista militare ci sono novità tra i due belligeranti? Ci sono delle trattative o almeno dei contatti che possano portare a un tavolo di pace?

Le parti si parlano, ma una trattativa vera e propria non è arrivata a maturazione. La situazione dal punto di vista militare è di stallo.

Ma da chi vengono sostenute, anche militarmente, le forze in campo?

Da un punto di vista politico, le RSF vengono sostenute dagli Emirati Arabi e dalla Russia, mentre Al Burhan è sostenuto parzialmente e non ufficialmente dagli europei, dagli USA, dalla Turchia e dall’Arabia Saudita. Il Sudan è un Paese pesantemente armato, ha tanti magazzini pieni e una rudimentale industria della difesa, i canali del traffico sono fiorenti. Più che produrre le armi, riescono a riparare quelle che hanno.

Non possiamo neanche aspettare che la guerra si esaurisca per mancanza di armi?

A un certo punto diminuiranno, ma ci vuole tempo. Ma non è quello il fattore. Nel frattempo, però, le persone moriranno di fame.

C’è qualcuno che può sbloccare la situazione?

Chi può fare di più sono le monarchie del Golfo, ma adesso hanno altro a cui pensare, devono occuparsi degli Houthi e della questione palestinese. È cinico da dire, ma neanche la prospettiva di una carestia delle dimensioni ipotizzate le smuoverà.

(Paolo Rossetti)

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