Le decisioni prese dall’Europa nell’ambito del cosiddetto Green New Deal rischiano di aver un impatto non indifferente sull’attività di molte imprese. Come si è visto nei giorni scorsi, il regolamento sugli imballaggi mette persino a rischio l’industria del riciclo, che pure dovrebbe essere considerata ambientalmente virtuosa, ma è già da tempo che l’automotive, uno dei punti nevralgici di tutta la manifattura del Vecchio continente, segnala i problemi che le direttive sulla transizione green possono comportare. Abbiamo chiesto un commento a Mattia Adani, imprenditore a capo degli industriali europei dei lubrificanti.
L’industria dei lubrificanti, che lei rappresenta in Europa, è parte del più generale dibattito sul futuro dell’industria europea. Dal suo osservatorio ci può spiegare cosa sta succedendo?
Nel suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione prima delle elezioni previste per l’anno prossimo, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha elencato le tre principali sfide in corso per l’economia europea: la crisi demografica e di competenze, l’alta inflazione e il livello di burocrazia, ritenuto anche da lei non più sostenibile dalle piccole e medie imprese. Ha anche annunciato l’avvio di un’indagine sui sussidi pubblici ricevuti dalle aziende cinesi produttrici di automobili elettriche. Per chi segue il dibattito europeo si è trattato di un cambiamento significativo. Per anni il mantra sembrava essere solo quello della sostenibilità ambientale. Ora tali obiettivi vengono confermati, ma accompagnati anche da considerazioni più pratiche di fattibilità. Purtroppo, le sfide sono molte.
Alcuni settori industriali hanno accusato l’Europa di avere avuto un atteggiamento ideologico. Lei cosa ne pensa?
Penso che le idee siano importanti. E altrettanto importante è avere ambizioni alte. L’industria europea non è contraria alla transizione energetica e alla lotta al cambiamento climatico. Sono entrambi una necessità. I danni che stiamo subendo sono sotto gli occhi di tutti. Dobbiamo farlo non solo per proteggere l’ambiente, ma anche per ridurre la nostra dipendenza dal petrolio e da materie prime che non possediamo. I cittadini europei hanno pagato, e stanno tuttora pagando, un prezzo alto per le via delle interruzioni alle catene logistiche di approvvigionamento che si sono avute con la pandemia prima e con la guerra in Europa dopo. Istituzioni e industria europea devono agire in modo coordinato per fare in modo che tutto ciò non accada più in futuro.
Ma il resto del mondo cosa sta facendo?
Il Presidente francese Macron ha segnalato all’ultimo G20 in India la sua preoccupazione per gli insufficienti impegni che i Paesi emergenti si stanno assumendo per fronteggiare il cambiamento climatico. La speranza che il resto del mondo avrebbe seguito la leadership morale e l’ambizione europea in termini di cambiamento climatico si sta rivelando, appunto, solo una speranza. È un problema per il nostro pianeta, ma è anche un problema per l’industria europea, che rischia di essere spiazzata. Purtroppo non ci sono pasti gratis. Non è possibile contemporaneamente mantenere standard ambientali e sociali molto più alti di quelli applicati poco fuori i nostri confini, un’industria forte localizzata in Europa e nessun controllo o penalizzazione alle frontiere verso chi quegli standard non li rispetta. La frustrazione è legittima, ma se l’Europa non ne prende atto e agisce rapidamente, le conseguenze potrebbero essere serie.
Alcuni infatti temono una deindustrializzazione del nostro Continente a vantaggio di altri, in particolare della Cina, come nel caso dell’auto elettrica.
Come dicevo, Ursula von der Leyen ha annunciato l’avvio di un’indagine sui sussidi pubblici ricevuti dalle aziende cinesi produttrici di automobili elettriche. La Cina è leader nel settore delle auto elettriche al di sotto dei 30.000 euro. Anche se recentemente la Renault ha annunciato la produzione di un modello a costi contenuti, le nostre imprese faticano a scendere sotto a quel livello. L’annuncio della Commissione è importante. Finalmente ci si è resi conto che la doverosa transizione verso una mobilità più sostenibile, per com’è stata disegnata, rischia di destabilizzare profondamente l’industria europea e mettere a rischio il diritto alla mobilità dei nostri cittadini. Non è però solo un problema di sussidi cinesi.
In che senso?
È l’intera strategia che andrebbe ricalibrata. Invece che puntare esclusivamente sull’auto elettrica, peraltro con il rischio di creare una nuova dipendenza dal litio, bisognerebbe consentire anche l’utilizzo di auto a biocombustibile. I biocombustibili possono essere prodotti in Europa e hanno il potenziale di risolvere all’80% il problema delle emissioni climalteranti provenienti dai veicoli a dei costi molto più contenuti e, soprattutto, sostenibili anche socialmente dalla nostra comunità.
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