Sul Sole 24 Ore del 23 agosto è stata dedicata un’intera pagina all’evoluzione della produzione ed esportazione dei pannelli fotovoltaici grazie anche ai dati resi disponibili dall’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), che descrivono la condizione di sostanziale monopolio delle grandi aziende cinesi acquisita nel corso degli anni Duemila.



Un posizionamento che investe tutta la filiera della produzione: dalla trasformazione della materia prima lavorata, il silicio policristallino (90% sul totale mondiale), passando alla fornitura dei wafer, i materiali indispensabili per il funzionamento dei microchip (97%), fino all’assemblaggio e alla vendita dei pannelli fotovoltaici. Per un volume di impianti installati in grado di soddisfare l’intero fabbisogno mondiale. Negli ultimi due anni (2021-22), le esportazioni di materie prime, componenti e pannelli, sono aumentate del 200%.



Il risultato è il frutto di interventi pianificati nel corso degli anni Duemila sul terreno dell’influenza geopolitica, sfruttando i vantaggi delle tecnologie importate, e il trasferimento in loco di una parte essenziale delle filiere produttive scartate da altri Paesi nel contesto della progressiva apertura dei mercati internazionali. Il trend è diventato imponente nella seconda decade degli anni Duemila, con le maggiori aziende cinesi che si sono insediate nei primi 7 posti nella classifica mondiale dei produttori.

Sulla base di questi numeri, il Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti ritiene praticamente impossibile, ed estremamente dispendioso, qualsiasi tentativo di recuperare il ritardo rincorrendo la Cina sullo stesso terreno e consiglia di adottare strategie e tecnologie alternative per rendere più efficiente l’intero complesso della produzione e distribuzione di beni e servizi e ottenere gli stessi risultati nella riduzione dei consumi di energia e delle emissioni inquinanti (ad esempio: con il risparmio energetico, il riciclo delle materie prime secondarie e dei materiali e la produzione di combustibili ecologici alternativi).



Nella stessa pagina del Sole 24 Ore, un articolo a firma di Enrico Mariotti mette in evidenza anche gli errori, definiti madornali, nelle metodologie utilizzate a livello europeo per valutare la riduzione delle emissioni di CO2 delle produzioni fotovoltaiche (20/40 grammi per Kwh rispetto agli 800 delle energie fossili, con punte di 1200 per quelle a carbone, come nel caso della gran parte della produzione di energia cinese). Una stima ragionevole dell’impatto delle energie fossili nella produzione di pannelli solari cinesi potrebbe comportare un aumento delle emissioni fino a 120 grammi per Kwh, superiore, ad esempio, ai 100 presi a riferimento per la produzione e vendita delle nuove automobili ibride in Europa e ai 10 dell’energia nucleare. Stime che non tengono conto dell’impatto dei trasporti dei pannelli verso altri Paesi. Se si tiene conto dell’analoga dominanza cinese nelle materie prime rare a partire dal litio e dal cobalto, e nella produzione di batterie elettriche per le automobili, quanto descritto in precedenza potrebbe valere anche per il complesso delle altre energie rinnovabili, persino per la produzione delle componenti hard delle tecnologie digitali che utilizzano le materie prime rare di svariata origine e che risultano controllate da aziende cinesi con percentuali superiori al 70%.

L’evoluzione della produzione dei pannelli solari risulta pertanto emblematica per la valutazione della congruità e della coerenza degli obiettivi europei messi in campo per orientare la sostenibilità ambientale di interi apparati produttivi con l’utilizzo di ingenti risorse economiche.

Alla luce dei numeri citati, tale sostenibilità ambientale, che viene evocata in simbiosi con quella economica e sociale in tutti gli atti delle istituzioni europee, assomiglia a un patetico tentativo di far quadrare, nella narrazione, gli obiettivi che sono contraddittori sul piano pratico.

Infatti, i singoli provvedimenti, in assenza di una strategia organica e attentamente ponderata sul terreno dei costi e benefici, sembrano un assemblaggio volto a soddisfare esigenze ideologiche o peggio i singoli interessi dei produttori coinvolti e degli Stati di appartenenza. In pratica vengono assunti provvedimenti trasferendo i costi economici e sociali sui singoli Paesi che, non a caso, si guardano bene dal provocare le reazioni ostili del Governo cinese, nonostante le tensioni geopolitiche che sembrano spingere in questa direzione.

Il fondamentalismo ambientalista riduce i margini di flessibilità nella ricerca di soluzioni alternative. Tende ad assomigliare in modo preoccupante all’approccio ipocrita e neocolonialista che ha orientato le scelte produttive dei Paesi occidentali negli ultimi 30 anni, fondato sull’esasperazione degli obiettivi di sostenibilità ambientale nell’ambito continentale, in combinato con il trasferimento delle produzioni sgradite e a basso costo verso i Paesi in via di sviluppo.

Colmo dei colmi, pochi mesi fa il Parlamento europeo ha approvato un ordine del giorno che invitava il Consiglio dei ministri dell’Ue a introdurre divieti e dazi per impedire l’importazione di materie prime e di prodotti ambientalmente nocivi o frutto di mancato rispetto dei diritti delle persone. In pratica tutta la gamma di quelli che gli Stati aderenti alla Ue dovrebbero utilizzare per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità ambientale decisi dalle autorità europee.

Non a caso buona parte dei Paesi dei vari continenti che vorrebbero aderire al gruppo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) considerano la nostra pretesa di vincolare le loro scelte in termini di sostenibilità ambientale come l’ennesimo tentativo di imporre il nostro modello di sviluppo.

Dove approderà il processo, tutt’altro che lineare, di riposizionare gli equilibri e le alleanze sul piano geopolitico non è dato sapere. Può sfociare nella ricerca di nuovi equilibri nella gestione delle relazioni economiche e politiche, ma anche nell’aumento delle tensioni e delle conflittualità di ogni genere. Certamente comporterà costi economici più elevati per l’approvvigionamento di materie prime, di prodotti e di componenti della produzione, e la ricerca di compromessi destinati a mettere in soffitta l’apparato etico valoriale, vero o presunto, che ha orientato buona parte delle scelte europee degli anni recenti.

È in atto un percorso destinato a influenzare la formazione e la distribuzione del reddito tra le aree economiche a livello mondiale che comporterà riflessi anche all’interno dei singoli Stati nazionali. Il grado di esposizione italiano è molto elevato. Il nostro punto di forza, nonostante la narrazione negativa sugli effetti della globalizzazione nel corso degli anni Duemila, è principalmente legato alla capacità delle nostre imprese manifatturiere di esportare un’ampia gamma di prodotti in numerosissimi Paesi. Il punto debole è la sistematica incapacità di utilizzare al meglio le risorse finanziarie, tecnologiche e umane disponibili. Aggravato dai problemi di sostenibilità dei carichi familiari per via dell’invecchiamento della popolazione e della riduzione delle persone in età di lavoro.

Possiamo consentire di mettere a rischio il nostro patrimonio produttivo e dilapidare le risorse per sostenere con risorse pubbliche il reddito delle persone in grado di lavorare?

Da una classe dirigente degna di questo nome sarebbe lecito avere delle risposte.

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