L’Europa sembra aver frenato sul Green Deal. Il ritmo di produzione delle politiche ambientali, che per due anni è stato incalzante, è adesso rallentato. In parte, la decelerazione è fisiologica: dopo l’adozione di provvedimenti con conseguenze importanti, fra cui la proibizione del motore a scoppio dal 2035 e la nature restoration law, può sembrare opportuno concentrarsi sulla cosiddetta “messa a terra” delle politiche stesse, come peraltro esplicitamente proposto nella “pausa ambientale” richiesta dal Presidente francese Macron. Ma c’è dell’altro? È lecito chiederselo, visto che l’attuale legislazione non è ancora sufficiente per gli obiettivi ambiziosi dichiarati nel Fit For 55.
È utile capire se ci sia una ragione politica dietro questo rallentamento. Il mondo occidentale sta vivendo un momento paradossale. Aumentano l’aspettativa e il tenore di vita, grazie, fra l’altro, al progredire della tecnologia, all’aumento generalizzato dei livelli di istruzione e al miglioramento dei trasporti e delle comunicazioni. Eppure, una dilagante percezione di insoddisfazione per le proprie condizioni economiche, unita a una sensazione di incertezza sul futuro, spingono molti cittadini a un atteggiamento di sfiducia nei confronti della politica e delle istituzioni. Anche, e forse soprattutto, a questo si deve la diffusa contrarietà dell’opinione pubblica nei confronti di leggi e riforme che generano costi individuali nel breve termine, e promettono benefici soltanto nel lungo periodo.
Prendiamo l’esempio di una riforma delle pensioni: mentre i costi sono certi, evidenti e immediati, i benefici si vedranno poi: se manca la fiducia e il futuro appare incerto, il poi viene percepito come molto più aleatorio e vale meno dell’adesso.
Anche la politica ambientale sconta una simile situazione di sfasamento temporale. Possiamo discutere sull’entità precisa dei costi e dei benefici della transizione ecologica. Tuttavia, quello che è certo è che i costi li paghiamo adesso, mentre i benefici arriveranno in futuro. Guadagnare il consenso di un’opinione pubblica sfiduciata è dunque tanto difficile, quanto – naturalmente – essenziale. Non solo per una pur fondamentale questione di rappresentatività democratica, che presuppone, in qualche misura, la coincidenza fra le istanze della maggioranza dei cittadini e le politiche attuate. Ma anche perché, in democrazia, i partiti che attuano ricette impopolari rischiano di perdere le successive elezioni e di vedere la loro riforma modificata o cancellata dal successivo Governo.
Questo ha due implicazioni. La prima, per la collettività: in assenza di consenso, il percorso della transizione ecologica rischia di essere bloccato; al danno di sospendere un itinerario virtuoso per il tenore di vita e la crescita futuri, si aggiungerebbe la beffa di avere già sostenuto ingenti costi e sforzi, che andrebbero in larga misura vanificati. La seconda, per i partiti: perdere le elezioni significa abbandonare il Governo, rinunciando così al core business del partito stesso. D’altronde, i politici navigati lo sanno bene. Jean-Claude Juncker, già Presidente della Commissione europea, parlando di riforme economiche, sosteneva che fosse chiaro ai politici cosa occorresse fare; meno chiaro era invece capire come essere rieletti dopo averlo fatto.
La ricerca economica nella disciplina della political economy, cioè sostanzialmente l’analisi economica della politica, mostra la presenza di un cosiddetto ciclo politico: le misure impopolari vengono realizzate non in prossimità delle elezioni. Questo dà tempo ai cittadini di dimenticarle, o quanto meno di averne meno vivida memoria, prima della successiva campagna elettorale: diventa anche più difficile, per i partiti di opposizione che le vorrebbero invece rendere salienti, portarle all’ordine del giorno fra i temi del dibattito.
Potrebbe quindi essere il prossimo appuntamento elettorale europeo, della primavera 2024, a scoraggiare ulteriori norme ambientali. In questo momento di incertezza politica e di particolare volatilità delle preferenze degli elettori, le votazioni potrebbero segnare uno spartiacque con il profilarsi di possibili nuovi maggioranze, con precisa connotazione politica.
Se questa congettura si rivelasse vera, se cioè, alla base del rallentamento delle politiche ambientali stesse la motivazione politica, significherebbe che i Governi si rendono conto che le politiche ambientali non godono del consenso dei cittadini. Farle subito dopo le elezioni, e quindi lontane dalle campagne elettorali future, sarebbe una soluzione rattoppo magari utile nel breve periodo, ma foriera di tanti problemi nel lungo. Più utile cercare di costruire il consenso sulle politiche ambientali.
Come? Intanto, dandosi obiettivi realistici con percorsi chiari e soluzioni tecnologiche realizzabili. Se i cittadini percepissero, ad esempio, un percorso coerente e convincente verso l’adozione delle auto elettriche, con un chiaro piano per ridurne i costi ed aumentarne l’autonomia, per costruire le infrastrutture di ricarica e per produrre l’energia elettrica (rinnovabile) necessaria, forse vedrebbero l’Unione europea non come il soggetto che vieta i motori endotermici senza un’alternativa valida e percorribile, ma come quello che spinge per una soluzione realizzabile e possibile. Immaginare questo percorso richiede, per l’Unione europea, il concentrarsi, più che sui divieti, sulle politiche per favorire lo sviluppo di nuove tecnologie e il coinvolgimento dei Paesi europei nelle filiere industriali legate alla transizione. D’altronde, l’Europa si trova ad affrontare Governi, in primis negli Stati Uniti e in Cina che, negli ultimi anni, hanno investito pesantemente nel settore della transizione energetica.
L’Inflation Reduction Act ha stanziato circa 800 miliardi di dollari di fondi pubblici per favorire l’industria dell’energia pulita negli Stati Uniti; la Cina ha investito pesantemente anche all’estero (in particolare in Africa) per assumere il controllo di parti importanti delle filiere legate alla transizione ecologica. Insomma, per l’Europa, ricominciare a ragionare di politica industriale potrebbe essere opportuno, anche per comunicare ai cittadini che la transizione ecologica non significa solo sacrifici, ma anche potenzialità di sviluppo industriale e di crescita.
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