Guerra in Ucraina, rincari dell’energia, aumenti folli e difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, inflazione che torna a galoppare. Un poker di tagliole che rischia di intralciare il processo di transizione alla sostenibilità, su cui l’Unione Europea in testa, ma anche molti settori economici hanno puntato per rendere l’Europa il primo continente sostenibile, garantendo al contempo un elevato standard di innovazione e di competitività. Un processo epocale, ma oggi, dopo lo scoppio del conflitto fra Russia e Ucraina, c’è chi dice che andrebbe ripensato o rallentato.



“Sarebbe un errore gravissimo”, come spiega in questa intervista Luca Dal Fabbro, Managing Partner del fondo Xenon Fidec e una lunga esperienza manageriale internazionale nel settore industriale e dell’energia. Che rilancia: “Sulla transizione energetica dobbiamo accelerare, perché conviene”. E per farlo occorre “un Pnrr dedicato”, una nuova strategia europea energetica che “dovrà basarsi su tre pilastri: la sicurezza degli approvvigionamenti, la competitività, ossia il costo dell’energia, e la sostenibilità. Non si può assolutamente derogare da nessuno dei tre”.



La guerra in Ucraina e l’eccessiva dipendenza dal gas russo hanno portato drammaticamente in primo piano il tema della sovranità energetica. È un traguardo che possiamo raggiungere? E con quale mix di fonti?

Seguendo strategie diverse. Nel breve periodo, dando priorità all’efficienza energetica e cercando fonti di gas alternative alla Russia.

In concreto?

Sul primo punto, la Commissione sottolinea che abbassare il riscaldamento degli edifici di un grado ridurrebbe la domanda di gas di circa 10 miliardi di metri cubi all’anno. Sul secondo, l’Ue ha concordato con gli Stati Uniti l’invio di 15 miliardi di metri cubi di gas naturale liquefatto (Gnl) aggiuntivi nel 2022, ma le parti si sono impegnate a rivedere questa cifra al rialzo fino a 50 miliardi nei prossimi anni. Per fare un confronto, si tratta di più del doppio dei 22 miliardi di metri cubi che gli Usa hanno venduto in Europa nel 2021.



Sul fronte italiano quali scelte andrebbero adottate?

Il governo ha stretto un accordo con l’Azerbaijan, innalzando a 9,5 miliardi di metri cubi il flusso di metano che transita dal gasdotto Tap per Turchia, Grecia e Albania, rispetto agli attuali 7 miliardi. Inoltre, per sostituire i 29 miliardi di gas di provenienza russa, il governo ha di recente stretto un accordo con l’Algeria, che prevede da Algeri circa 3 miliardi di metri cubi in più di gas subito, altri 6 nel 2023 per arrivare a 9 miliardi, circa 3 miliardi di gas e 3 di Gnl. Attraverso l’Eni, inoltre, si conta di ricevere da Egitto e Qatar circa 3 miliardi di metri nel 2022 e 5 nel 2023, mentre un progetto in Congo dovrebbe fornire circa 5 miliardi a partire dal 2023-2024. Infine, 2-3 miliardi di metri cubi arriverebbero dall’autoproduzione nazionale, che al momento copre il 5% del nostro fabbisogno.

E nel medio periodo cosa bisognerebbe fare?

Nel medio periodo, dobbiamo puntare su tecnologie green e innovative come biometano e idrogeno, che sono al centro del piano REPowerEU, presentato dall’Ue per minimizzare la dipendenza dal gas russo, e ovviamente sulle rinnovabili.

Rincari dell’energia, carenza di materie prime, corsa dell’inflazione: questa “tempesta perfetta” costringerà presto i governi a cambiare andatura e obiettivi legati ai piani di transizione green?

Nel brevissimo periodo la necessità di limitare la dipendenza dal gas russo può effettivamente mettere in secondo piano gli obiettivi di transizione green, dando priorità alla sicurezza energetica. Come ha però sottolineato Larry Fink, Ceo e Chairman di Blackrock, se rendersi indipendenti dal gas russo porterà nell’immediato a un peggioramento della sostenibilità dei mix energetici dei Paesi europei, che dovranno affidarsi maggiormente al carbone per evitare blackout e contingentamenti della produzione, nel medio periodo può invece portare a un’accelerazione sul lato della transizione energetica, che altrimenti sarebbe dipesa maggiormente dal gas, velocizzando l’installazione di energie rinnovabili e l’utilizzo di nuove tecnologie. La pandemia da Covid-19 ha mostrato la forza che eventi su scala globale hanno nell’affrettare il cambiamento e questa guerra deve forzarci ad essere ambiziosi sui nostri obiettivi.

La Ue ha deciso di accelerare sulla transizione verde, ma dal mondo delle imprese salgono timori sul fatto che questo cambio di passo sia troppo forzato, con il rischio di isolare l’Europa e di indebolire la sua industria. Come evitare questo rischio?

Bisogna riconoscere che lo scenario competitivo oggi è cambiato e che servono soluzioni innovative e lungimiranti. Il costo del gas non è destinato a tornare sui livelli pre-2021 nell’immediato futuro e lo stesso vale per il costo dell’anidride carbonica in Europa. Se poco più di un anno fa, nel gennaio 2021, la tassa da pagare per emettere una tonnellata di CO2 in Europa era pari a 34 euro, oggi è più che raddoppiata, arrivando a 80 euro.

Un contesto profondamente diverso e più critico, non crede?

Vero, ma in questo contesto, accelerare sulla transizione è un’opportunità per creare valore oltre che una necessità.

Perché ne è così convinto?

Le imprese che per prime sono state capaci di avviare un processo di decarbonizzazione si trovano ad affrontare costi minori e a essere quindi più competitive. Certo, è importante ridurre le differenze competitive tra regioni diverse.

In che modo?

Un ruolo importante potrebbe avere il Carbon Border Adjustment Mechanism. Si tratta di una nuova tassa sulle importazioni di alcuni settori, proposta dall’Ue, per tutelare le imprese europee dai concorrenti che producono in Paesi con legislazioni sul clima meno rigorose. L’obiettivo è quello di far pagare una carbon tax a partire dal 2026 sulle importazioni di acciaio, cemento, fertilizzanti, alluminio ed elettricità, per garantire che le imprese europee non siano appunto messe in svantaggio competitivo.

Intanto si comincia a ipotizzare che presto si renderà necessaria una nuova futura strategia energetica europea e italiana. Lei come la imposterebbe?

La transizione è un tema di cui tutti parlano, ma a mio avviso senza centrare il nocciolo della questione.

Che sarebbe?

Ci si concentra esclusivamente sulla sicurezza e sui costi, ma in realtà la nuova strategia europea energetica – e a tal scopo sarà sicuramente necessario un Pnrr dedicato – dovrà basarsi su tre pilastri: la sicurezza dell’approvvigionamento, la competitività, ossia il costo dell’energia, e la sostenibilità. Non si può derogare da nessuno dei tre.

Come si tengono insieme?

Rispondo con una riflessione controcorrente. In queste settimane c’è chi scrive che dobbiamo ripensare e rallentare il processo di transizione energetica, perché c’è la guerra. Vale esattamente il contrario, è un gravissimo errore pensarlo. Dobbiamo accelerare, perché conviene.

Dove sta la convenienza?

È presto detto: produrre energia elettrica da pannelli fotovoltaici in Sardegna, Sicilia o Puglia costa assai meno che produrla con il gas. Non solo: l’economia circolare, che potremmo ancor più sviluppare, ci permetterebbe di recuperare metalli rari e metalli che oggi hanno prezzi impossibili, rendendo la nostra economia più resiliente, perché meno dipendente dall’estero, e anche più competitiva, perché il recupero costa meno che l’import, per esempio del litio proprio dalla Russia.

Perché allora non è stato fatto prima?

I processi autorizzativi hanno una loro responsabilità, dobbiamo ripensarli per le rinnovabili e per gli impianti di circular economy. Le cito un solo esempio: con il biogas potremmo produrre 8 miliardi di metri cubi in più di gas da matrici agricole, installando altri 60-70 GW di energia solare. Con un processo autorizzativo ben diverso, basterebbero tre anni. Oggi invece l’iter è tre-quattro volte più lungo.

Anche le imprese devono fare i conti con rincari dell’energia e delle materie prime. L’economia circolare può essere un modello e una soluzione?

Certamente. L’economia circolare può svolgere un ruolo primario in questo scenario. È importante sottolineare, infatti, che economia circolare non significa solo riuso e riciclo, ma ripensare il ciclo produttivo per minimizzare l’impiego di materie prime vergini e lo smaltimento in discarica dei prodotti finiti. Un’economia maggiormente circolare si traduce, da un lato, in minori costi per materie prime e, dall’altro, in catene di fornitura più corte, specie dopo due anni di pandemia, che hanno lasciato un contesto e uno scenario caratterizzati da grandi costi e ritardi nelle catene del valore globalizzate.

Accennava poco fa ai metalli e alle terre rare, sempre più imprescindibili nelle produzioni a maggior contenuto tecnologico e innovativo. Reperire questi materiali è sempre più costoso e difficile. Possiamo trovare delle alternative?

Questa crisi dovrebbe obbligarci a ragionare sulle altre nostre dipendenze strategiche da Paesi terzi, e penso soprattutto proprio alle terre rare, un insieme di minerali di fondamentale importanza per la produzione di batterie, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici, elementi fondamentali della transizione energetica. Oggi oltre il 90% del fabbisogno dell’Europa di terre rare è soddisfatto dagli approvvigionamenti cinesi. A settembre 2020 l’Ue ha annunciato l’Alleanza europea per le materie prime (Erma) come parte del piano d’azione sulle materie prime critiche. Tuttavia, entro il 2025, secondo le stime di Roskill, la Cina aumenterà dalle attuali 300mila a quasi 500mila tonnellate la sua capacità di produzione di magneti, mentre la Commissione Ue, nel suo rapporto sui materiali critici, ha fissato l’obiettivo di 7mila tonnellate.

Numeri non paragonabili. Siamo destinati a sconfitta certa?

No. L’economia circolare può svolgere un ruolo fondamentale nel recuperare in modo strutturale e strategico prodotti a fine vita ed estrarre minerali preziosi per riutilizzarli nel ciclo produttivo. Per farlo, però, servono ricerca e investimenti, ma è importante sottolineare che la questione non ha solo implicazioni economiche, bensì anche geopolitiche, ambientali e sociali.

“La modernità di un popolo si misura dalla modernità delle sfide che si dà”. Sono parole di Antonio Gramsci. La sostenibilità è senza dubbio una sfida modernissima. Ma quanto è moderna, cioè preparata alla bisogna, l’Italia? Non ci siamo posti obiettivi troppo ambiziosi?

Non bisogna sottovalutare gli sforzi del nostro Paese su transizione energetica e circolare. Secondo il quarto Rapporto sull’economia circolare, l’Italia si piazza prima a pari merito con la Francia nella classifica di circolarità nelle principali cinque economie dell’Ue (Italia, Francia, Germania, Polonia e Spagna).

E a livello di rinnovabili?

Nel nostro Paese nel 2020 il 20,36% dell’energia utilizzata proveniva da fonti rinnovabili, contro un obiettivo fissato dall’Ue al 17%. Per fare un confronto, in Germania era pari al 19,3%, in Francia al 19,11%, in Spagna 21,22%. Il nostro Paese ha quindi le potenzialità per affermarsi come leader nella transizione ecologica e, grazie anche all’alto grado di irraggiamento delle regioni del Sud e alla posizione geopolitica strategica, può rivendicare un ruolo primario qualora il centro dello scenario energetico europeo si spostasse dal Nord-Est al Mediterraneo.

Il settore degli investimenti sostenibili è in forte crescita. Cosa raccontano i numeri del fenomeno?

Il settore degli investimenti sostenibili sta diventando sempre più importante. Secondo Morningstar, solo nell’ultimo trimestre del 2021, ci sono state contribuzioni pari a 143 miliardi di dollari nei fondi sostenibili, che ad oggi gestiscono circa 2,7 triliardi di dollari, con una crescita pari al 53% rispetto all’anno precedente. Di questi, 2,7 triliardi di dollari, più dell’80%, è detenuto da fondi europei. Allargando, poi, l’orizzonte a tutte le asset class, secondo il Global Sustainable Investment Review il 35,9% degli asset under management a livello globale sono investimenti sostenibili, quantificabili in 35,3 triliardi di dollari. Ad oggi, una minima percentuale è rappresentata dagli impact funds – sul sociale, sulla sostenibilità e sulla governance – conformi all’articolo 9 della SFDR – il regolamento sull’informativa di sostenibilità dei servizi finanziari in vigore nella Ue -, che nel luglio 2021 rappresentavano solo il 3,7% degli asset gestiti nei fondi europei, contro il 30,3% degli investimenti conformi all’articolo 8. E negli ultimi anni è diventato evidente quanto la sostenibilità giochi un ruolo fondamentale nei processi di creazione di valore e di mitigazione dei rischi aziendali. Problemi come la scarsità d’acqua, l’uso di combustibili fossili, l’inquinamento dell’aria, l’acidificazione degli oceani e standard inadeguati di governo aziendale possono pregiudicare la capacità produttiva delle aziende e avere in ultimo pesanti effetti finanziari.

Questo spiega perché la finanza sostenibile giochi un ruolo strategico nell’allocazione di capitale. Come rendere, allora, la transizione green un successo?

È indispensabile ridurre i rischi di greenwashing e assicurare che il capitale venga allocato nelle aziende più sostenibili. Fino ad oggi, la valutazione di sostenibilità delle imprese è stata strettamente legata ai rating ESG.

Ma sugli obiettivi ESG c’è ancora troppa confusione…

I rating ESG forniscono una valutazione sintetica delle performance di un’azienda per quel che riguarda il suo impegno in ambito sociale, ambientale e di governance e vengono proposti ed elaborati da agenzie specializzate nella raccolta e nell’analisi di dati ESG. Pur rappresentando un indicatore importante per gli investitori, perché permettono di avere una comprensione più approfondita dell’impresa e della sua sostenibilità, i rating ESG vengono calcolati da enti privati con framework proprietari e risultano spesso poco trasparenti e non comparabili. Per questo motivo, si è assistito negli ultimi anni alla nascita di diversi standard di reporting di sostenibilità, che possano guidare le società nella rendicontazione e nella disclosure trasparente delle proprie performance ESG, a beneficio di tutti gli stakeholders.

Si può arrivare a una metrica di valutazione chiara e condivisa?

Il libro ESG. La misurazione della sostenibilità di ESG European Institute indaga alcuni tra i principali standard e rating ESG, restituendo un quadro completo della misurazione della sostenibilità ad oggi. L’analisi evidenzia una perdurante situazione di disomogeneità, che ritarda l’introduzione di standard condivisi. Per questo motivo, si evidenziano ad oggi diverse iniziative a livello pubblico e privato per favorire una convergenza negli standard di rendicontazione ESG, quantomeno ad un primo livello sector-agnostic. L’analisi di ESG European Institute si propone di contribuire a questo processo di convergenza, avendo individuato tramite l’analisi di alcuni tra i maggiori rating e standard ESG 21 fattori di importanza trasversale.

(Marco Biscella)

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