L’aumento dei prezzi delle materie prime e i rischi ambientali rendono urgente modificare il mix di fonti di energia. Quest’affermazione, oggi sostanzialmente acclarata, riecheggia in realtà da tempi lontani. Verso il secondo secolo avanti Cristo, il legname, allora abbondantemente utilizzato come combustibile da riscaldamento nelle ville patrizie romane, era diventato particolarmente caro. Il monte Cimino, sino ad allora il principale giacimento di legna, era stato interamente disboscato, così come molti suoi vicini. La Repubblica romana era così costretta a importare legno da altre regioni italiane, e talora addirittura dal Caucaso, con fortissimi aggravi di costo legati al trasporto. La considerazione economica e quella ambientale, ben descritta, fra gli altri, nella Storia Naturale di Plinio il Vecchio, hanno spinto Roma a modificare la struttura delle proprie abitazioni, introducendo principi di architettura bioclimatica, mediante l’orientamento delle facciate verso Sud e la costruzione di un ambiente, il cosiddetto heliocaminus, per catturare il calore invernale.



Nulla di nuovo concettualmente, dunque, nel pacchetto predisposto dall’Unione Europea Fit For 55, già presentato in un precedente articolo. L’Ue ha definito l’obiettivo ambizioso della neutralità carbonica, da raggiungere entro il 2050. La neutralità carbonica, espressione con la quale si intende l’equivalenza fra l’anidride carbonica emessa e quella riassorbita, richiede una drastica riduzione delle emissioni rispetto al livello attuale, ulteriore anche rispetto alla diminuzione del 55% che si prevede dovrà avvenire entro il 2030.



Il percorso verso la neutralità è destinato ad avere un impatto sull’organizzazione della nostra società. Inevitabilmente, non avrà conseguenze soltanto positive, ma porterà con sé dei costi, potenzialmente molto ingenti, per le famiglie e per le imprese. È dunque di fondamentale importanza minimizzare questi costi, non soltanto, ovviamente, per non compromettere il tenore di vita della popolazione, ma anche per fare in modo che vi sia il massimo consenso possibile da parte della popolazione attorno a queste politiche. Il raggiungimento del consenso da parte di ampi segmenti della popolazione non è solo finalizzato ad astratte, per quanto ovviamente fondamentali, ragioni di rappresentatività democratica, ma anche alla motivazione pratica per cui il consenso è essenziale per l’effettiva implementazione delle politiche. La neutralità carbonica richiede infatti che tutte le politiche, quelle energetiche, ma anche quelle ambientali, industriali e del lavoro, siano costantemente rivolte in quella direzione per un lungo periodo di tempo (d’altronde, il raggiungimento della neutralità carbonica è previsto che si concretizzerà nel 2050). Una reazione negativa da parte dei cittadini rischia di contribuire alla non rielezione degli schieramenti che le supportano, a favore, invece, dei blocchi che a esse si oppongono. Più in generale, un’opinione pubblica avversa disincentiva i partiti dal sostenerle, così potenzialmente bloccando la transizione.



Come dunque concepire una politica energetica che minimizza i costi e che incontra il favore dei cittadini? Fra i diversi aspetti, nella restante parte di questo articolo, ci concentriamo su un paio di macrotemi fondamentali, che saranno poi oggetto di un approfondimento individuale all’interno di prossimi articoli, dedicati a temi specifici.

Il primo aspetto riguarda l’impianto di fondo: occorre puntare su tecnologie definite dall’alto (che, in questo caso, potrebbero essere rappresentate dall’elettrificazione dei trasporti e dalle rinnovabili quali fonti per la produzione elettrica), con un approccio che, in termini anglosassoni, potremmo definire di picking the winner. Oppure, al contrario, è utile una politica di neutralità tecnologica sulla base della quale, una volta definiti gli obiettivi in termini di riduzione delle emissioni, è poi il mercato a stabilire quale tecnologia sia la migliore. Ciascuna delle alternative presenta vantaggi e svantaggi: dalla scelta discende il tipo di politiche prescelte, di tipo tendenzialmente dirigista se prevale l’approccio di picking the winner, oppure di mercato se prevale l’approccio di neutralità tecnologica.

Il secondo tema riguarda le conseguenze industriali della transizione ecologica. Anche a seconda dell’approccio che prevarrà, molti settori industriali (in particolare nei comparti automobilistico e in quello della raffinazione e distribuzione dei combustibili alternativi) potrebbero essere destinati a subire ingenti ridimensionamenti, con potenziali importanti conseguenze sociali. L’Anfia stima in più di 70mila i posti di lavoro che potrebbero essere persi nel settore automobilistico durante il processo. Se a essi sommiamo l’altrettanto significativa mole di posti di lavoro, di tassisti e camionisti, che potrebbero essere messi in discussione dalla transizione ai veicoli a guida autonoma, che presumibilmente avverrà simultaneamente a quella verso la neutralità carbonica, ne emerge un quadro sociale potenzialmente delicato e costoso per i contribuenti.

In che misura è possibile riconvertire le imprese o i lavoratori, e in che misura, invece, saranno necessari ammortizzatori sociali che accompagneranno il processo? Con la diffusione degli ascensori automatici nei primi decenni del XX secolo, in alcuni stati degli Stati Uniti si era deciso di imporre che gli ascensori avessero comunque un operatore umano: non solo per migliorare la percezione di sicurezza, ma anche come ammortizzatore sociale per i facchini, la cui attività non riusciva a reggere la concorrenza degli ascensori. Saranno necessarie misure simili? Quale ne sarà il costo, sociale ed economico?

L’individuazione dell’heliocaminus del XXI secolo (o, più probabilmente, del mix di strumenti più adeguato) non dovrà partire da considerazioni soltanto di efficienza tecnica, né tanto meno da considerazioni ideologiche, ma dovrà passare dalla sostenibilità economica e politica, che rappresentano condizioni indispensabili per la sua realizzazione.

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