Le transizioni digitale ed ecologica impongono cambiamenti importanti al mondo produttivo di tutta l’Unione europea. Oggi se ne parlerà al Meeting di Rimini in un incontro che vedrà tra i relatori il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, che abbiamo raggiunto per un’intervista.
Al centro dell’incontro del Meeting cui lei partecipa ci sono le sfide poste dalle transizioni digitale ed ecologica. L’industria italiana, e anche altri simboli del Made in Italy, come nel settore agroalimentare, sono in effetti molto impattati dalle norme e dai piani europei in materia. Il Governo come intende agire su questo fronte? È pronto anche a dire dei no a Bruxelles?
La doppia transizione ecologica e digitale rappresenta una vera e propria rivoluzione epocale, una sfida che però avrà costi che non vanno sottovalutati, non sarà un pranzo di gala, come ripeto spesso. E tutti sono chiamati a fare la loro parte. Non è pensabile, infatti, che la transizione ecologica ed energetica, il passaggio dai combustibili fossili alle rinnovabili, si trasformi per l’Europa in una nuova dipendenza che sposta il peso dal gas russo alle tecnologie green cinesi. Parallelamente serve consapevolezza per il rispetto dell’ambiente e le scelte etiche. Noi siamo quindi impegnati a realizzare obiettivi sempre più orientati ad assicurare il sostegno a progetti di innovazione di processo in chiave digitalizzazione, sostenibilità ambientale e sostenibilità sociale. Ma l’impatto di questa rivoluzione non deve andare a detrimento delle imprese, non deve ricadere sulle eccellenze del nostro Made in Italy. Tutti temi su cui è aperto il confronto con l’Europa, come dimostra ad esempio la battaglia che stiamo facendo, nel campo dell’automotive, sul passaggio ai motori Euro 7 e all’elettrico.
A proposito di automotive, l’Amministratore delegato del principale costruttore presente nel nostro Paese, Stellantis, ha dichiarato nelle scorse settimane che le produzioni aumenteranno dove è più conveniente. In effetti, alcuni nuovi modelli Fiat saranno costruiti in Marocco e in Polonia. L’Italia rischia di vedere ridotta ulteriormente la produzione di auto e il numero di addetti nei suoi impianti?
Noi stiamo lavorando per andare esattamente nella direzione opposta, affinché salga la produzione in Italia, dopo oltre vent’anni di declino inarrestabile. A fine agosto riprende il confronto con Stellantis per arrivare a metà settembre alla sigla di un “piano di lavoro” con l’azienda con l’istituzione di un Tavolo Stellantis che ci consenta realizzare entro fine anno un “accordo di sviluppo” che preveda l’incremento dei volumi di produzione sia di auto che di veicoli commerciali, il rafforzamento dei centri di ingegneria e ricerca e sviluppo, un miglior efficientamento degli impianti per migliorarne la competitività, l’accelerazione degli investimenti in transizione energetica. Un percorso che ha come orizzonte il 2030 e che condivideremo con sindacati, Regioni e Anfia e che punta a raggiungere il tetto del milione di veicoli prodotti, con ricadute significative, anche in termini occupazionali, sugli impianti in Italia.
Un altro dossier che riguarda industria e transizione ecologica è quello relativo all’ex Ilva. Ci può spiegare cosa intende fare il Governo per salvaguardare la produzione e l’occupazione a Taranto, evitando lo spegnimento dell’area a caldo, dopo che sono stati anche tolti i fondi del Pnrr per la decarbonizzazione, e considerando che manca meno di un anno al termine del già prorogato accordo per l’assetto societario di Acciaierie d’Italia?
Con la norma approvata nel decreto Salva Infrazioni, viene di fatto agevolata la chiusura della procedura di infrazione pendente dal 2013 rendendo il sito di fatto non più sequestrabile. In questo modo abbiamo sostanzialmente rimosso anche l’ultima giustificazione che veniva avanzata dalla Azienda. Ora ci aspettiamo che vengano raggiunti nei tempi prefissati gli obiettivi sui livelli produttivi, sul completamento del processo dell’Aia per la riconversione ambientale e sul revamping dell’altoforno Afo 5, senza il quale la siderurgia italiana non è in grado di rispondere alle esigenze del Paese. Serve un piano industriale chiaro e condiviso che delinei anche quali sarà lo sviluppo occupazionale e che ci consenta di realizzare un Accordo di programma per Taranto, così come per le altre aree industriali su cui incidono gli stabilimenti dell’ex Ilva.
Nelle scorse settimane lei ha ribadito la volontà del Governo di potenziare il piano Transizione 4.0 a livello di risorse (4 miliardi di euro). Pensate anche di ampliare la possibilità di usufruire dei crediti d’imposta per investimenti che integrano le due catene del valore, fisica e digitale, e per la sostenibilità?
Uno dei nostri obiettivi è la realizzazione di un significativo piano Transizione 5.0, per consentire alle imprese, proprio attraverso un meccanismo di crediti fiscali, di accelerare sulla strada dell’innovazione facendo leva su tecnologia, sostenibilità digitale, formazione e strumentazione. Dobbiamo razionalizzare tutti gli incentivi alle imprese per far in modo che queste possano fare programmazione. Alle aziende serve una riforma complessiva delle risorse a cui poter attingere per investire e crescere da un punto di vista innovativo. Bene, dunque, i benefici fiscali e l’indirizzo di questi verso le imprese a maggior impatti tecnologico (chip, aerospazio, alta tecnologia clean tech). Peraltro nel decreto asset strategici approvato nell’ultima seduta del Cdm abbiamo destinato 700 milioni di euro per ricerca e investimenti in microelettronica. Ma accanto a questi strumenti serve anche un Fondo sovrano europeo in grado di accelerare la doppia transizione, verde e digitale, che è la cornice entro la quale si dovrà sviluppare il paradigma Industria 5.0.
Lei si è fatto promotore di un ddl sul Made in Italy con un fondo che verrà alimentato anche da risorse private. Cosa si riuscirà a fare con questi stanziamenti, che al momento appaiono limitati, se non ci sarà uno strumento simile a livello europeo che vada oltre l’allentamento della disciplina sugli aiuti di Stato che rischia solo di amplificare le divergenze già esistenti tra i Paesi membri?
La realizzazione all’interno del ddl Made in Italy di un fondo sovrano nazionale è solo il primo passo. Alle risorse stanziate si sommeranno investimenti privati per non meno del 50% della dotazione iniziale. E sono convinto che i fondi stranieri potranno aggiungere le loro risorse e scommettere sul nostro Paese. Obiettivo principale di questo fondo sarà quello di provare a colmare il ritardo italiano nel controllo delle filiere strategiche fornendo risorse aggiuntive agli investimenti. L’auspicio naturalmente è che si possa arrivare a strumenti finanziari analoghi a livello comunitario, siamo sulla buona strada. Penso che giungeremo presto anche alla realizzazione di un fondo strategico europeo perché si allarga il consenso tra gli Stati e anche nella Commissione sulla necessità di supportare le imprese nel raggiungimento di tali obiettivi. L’Italia è sempre ascoltata in Europa grazie alla leadership di Giorgia Meloni.
Si era parlato mesi fa di un possibile investimento di Intel nel nostro Paese, in Veneto o in Piemonte, grazie anche a contributi pubblici. Poi è sembrato tutto sfumare. È definitivamente tramontata questa possibilità?
Con le due Regioni interessate, Veneto e Piemonte, abbiamo risposto a tutte le richieste sia su formazione e logistica del territorio, sia per quanto riguarda le risorse. Ora tocca a Intel decidere dove localizzare. In ogni caso non è l’unica azienda che intende investire nel nostro Paese nel settore della microelettronica. Nei mesi scorsi una nostra task force è stata a Taipei, Seul, Tokyo e a Washington e parallelamente stiamo rafforzando le politiche di attrazione degli investimenti nel nostro Paese, con la creazione di uno sportello unico per le imprese che guardano all’Italia come loro possibile sbocco e che potranno essere assistite nell’intero percorso da specifici tutor. Previste anche corsie accelerate per chi investe sopra i 400 milioni. Un lavoro a 360 gradi che penso possa creare le condizioni migliori per imprese del settore digitale interessate a produrre nel nostro Paese.
Posto che ancora una decisione ufficiale in merito non è stata presa, è comunque possibile non rinnovare il Memorandum sulla Nuova Via della Seta senza che vi siano contraccolpi nei pur importanti rapporti commerciali con la Cina?
Sulla Via della Seta si pronuncerà nelle prossime settimane il Governo nel suo complesso. Ma la stella polare lungo cui ci muoveremo sarà quella di ridurre i rischi politici e aumentare le opportunità commerciali. La Cina è e resta un grande partner commerciale, ma non è il nostro più grande partner: faccio presente che l’Italia esporta più in Austria che in Cina. Altro dato che va tenuto presente è che la nostra bilancia commerciale da quando è stato firmato l’accordo politico sulla Via della Seta è peggiorata e a luglio su base annua le esportazioni sono scese del 6,7%, mentre altri nostri partner come Francia e Germania hanno continuato a fare affari anche senza aver sottoscritto accordi strategici con la Cina. Una lezione che dovrà essere tenuta presente al momento delle decisioni. La Via della Seta era la via dei mercanti e tale deve tornare a essere.
Recentemente ha incontrato a Berlino Robert Habeck e Bruno Le Maire per parlare soprattutto di materie prime critiche. Lei ha detto anche che il Governo intende riaprire delle miniere in Italia. Pensa che non incontrerà l’opposizione ambientalista locale?
La partita per l’estrazione di materie prime critiche sarà la sfida cruciale dei prossimi anni. L’Italia annovera ben 16 tra le 34 materie individuate dall’Unione europea quali elementi necessari alla duplice transizione, ecologica e digitale, cruciali per l’industria italiana e per una maggior indipendenza nella produzione delle batterie elettriche e dei pannelli solari. Una sfida che non possiamo lasciar cadere anche per non lasciare a Paesi come la Cina il monopolio di queste tecnologie. Noi siamo ben determinati a partecipare e stiamo già lavorando alla mappatura dei siti presenti nei nostri territori. Voglio rassicurare tutti che si lavorerà per ridurre l’impatto ambientale di un’operazione di cui conosciamo le difficoltà e la complessità. In aiuto ci potrà venire lo sviluppo della tecnologia che in 30 anni, da quando sono state chiuse le ultime miniere, in Italia ha fatto passi da gigante.
A proposito sempre di materie prime, il Governo lo scorso anno ha approvato una misura per consentire l’aumento della produzione nazionale di gas. Non sembra che il risultato sperato sia stato raggiunto. A suo avviso perché?
Sul fronte degli approvvigionamenti di gas abbiamo fatto significativi passi avanti anche con l’arrivo a Piombino della nave rigassificatrice Golar Tundra. Ora non ci sono allarmi in vista né sulla quantità, né sui prezzi, che dopo le impennate speculative dello scorso anno sono tornati a livelli fisiologici. Segnalo che i livelli di stoccaggio hanno raggiunto nei giorni scorsi il 90%. Entro il 2023 sono quindi convinto che potremo raggiungere definitivamente l’indipendenza energetica, in particolare dalla Russia. Siamo infatti già passati dal 40% di import di gas da Mosca nel 2021 al 16% dello scorso anno e il cronoprogramma stabilito per affrancarci da questa dipendenza è perfettamente in linea con la tabella di marcia che l’Italia si era prefissata allo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina.
(Lorenzo Torrisi)
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