La trattativa Stato-mafia ci fu, ma i carabinieri volevano solo fermare le stragi. Questo il motivo per il quale gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno sono stati assolti il 23 settembre scorso dalla corte d’assise di Palermo, ribaltando la sentenza di primo grado che invece li aveva condannati. Nelle carte delle motivazioni si legge che «Vito Ciancimino fu contattato, prima da De Donno poi anche da Mori personalmente», da un lato per «acquisire da lui notizie di interesse investigativo», dall’altro per «tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci». Ma le pagine della sentenza sono oltre tremila e la procuratrice generale di Palermo, Lia Sava, intende leggerle tutte con attenzione per valutare se ci sono i margini per il ricorso in Cassazione, tenendo conto anche che c’è tempo fino al 15 ottobre per presentarlo.



Dunque, i giudici d’appello confermano che ci sia stata una trattativa accettata da Totò Riina. Inoltre, definiscono «improvvida» l’iniziativa di contattare Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo. Ma scrivono anche che appunto l’unico obiettivo era quello di fermare le stragi. Hanno, infatti, scartato l’ipoteso di una collusione dei carabinieri con ambienti della mafia e confutato quella che abbiano agito per preservare l’incolumità di qualche esponente politico. «Nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da tini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato».



“VOLEVANO SOVVERTIRE ASSETTI DI POTERE NELLA MAFIA”

Si spiega così, dunque, l’assoluzione dei carabinieri. Nelle motivazioni vengono citati anche il ministro Conso e l’ex presidente della Repubblica Scalfaro, alla luce dell’ipotesi di un concorso oggettivo alla realizzazione del reato o al cedimento alla minaccia mafiosa. Tutto ciò per i giudici «oltre che ingeneroso e fuorviante, è frutto di un errore di sintassi giuridica». La sentenza di primo grado viene ribaltata anche per quanto riguarda il ruolo della trattativa Stato mafia nella strage di Borsellino: i giudici smentiscono che l’abbia accelerata. «Quell’input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quello concernente l’onorevole Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto mafia e appalti». Nella sentenza si esclude poi che i carabinieri possano aver fatto promesse di benefici ai mafiosi delle stragi. L’idea era semplicemente quella di «insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente», quindi «fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista». Tutto ciò viene definito dai giudici un progetto ambizioso che si pone in una posizione intermedia tra la vera trattativa politica e quella di polizia.



LA MANCATA PERQUISIZIONE DEL COVO DI RIINA

Per quanto riguarda la mancata perquisizione del covo del boss Totò Riina, i giudici spiegano che va inquadrata «nel contesto delle condotte di Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti». Non c’è una specifica volontà di favoreggiamento, ma l’intenzione di «lanciare un segnale di buona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino per giungere al superamento di quella contrapposizione di Cosa Nostra con lo Stato che era già culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio». Inoltre, manca l’accordo di un previo accordo con Provenzano o altri mafiosi che riguardasse la consegna di Totò Riina e la rinuncia alla perquisizione dell’immobile, dando tempo ai mafiosi di ripulirlo. Mori e i suoi non potevano sapere che vi fossero tracce utili alle indagini o documenti compromettenti. Se non vennero sconvolti gli equilibri interni a Cosa nostra, il motivo era di «interesse nazionale». I giudici rimarcano la scelta strategica: «Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso». La sentenza afferma che «si voleva “proteggere” Provenzano», cioè favorirne la latitanza, ma in modo soft, «cioè limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo». Ciò non per via di una trattativa, di un patto, ma perché la caduta di Provenzano «avrebbe favorito il riemergere delle pulsioni stragiste mai del tutto sopite in Cosa Nostra». Per quanto riguarda invece l’assoluzione dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, già condannato per concorso in associazione mafiosa in un altro processo, nella sentenza è scritto che non ci sono prove che abbia completato il progetto, di cui pure era a conoscenza. Per i giudici non c’è la prova che abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa e stragista fino a Silvio Berlusconi quando questi era presidente del Consiglio.