“La trattativa per la tregua e la liberazione degli ostaggi è difficile: Hamas e Netanyahu si giocano la loro sopravvivenza, mentre l’obiettivo di tutto il mondo che sta intorno è esattamente il contrario, cioè di vedere scomparire sia Hamas che Bibi Netanyahu”. Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’Ispi, sintetizza così lo stato dell’estenuante trattativa che dovrebbe portare a una tregua a Gaza e allo scambio tra gli ostaggi rapiti il 7 ottobre e i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.



Per Hamas, la semplice sopravvivenza alla guerra sarebbe una vittoria, per Netanyahu la rinuncia alla guerra, e forse anche solo una tregua lunga, potrebbe significare l’addio definitivo al suo governo e alla carriera politica. Una situazione non facile, acuita dall’imminenza del Ramadan, un periodo dell’anno che proprio per la sacralità che gli attribuiscono i musulmani solitamente alza la tensione. E anche dalle continue incursioni israeliane in Cisgiordania, motivate dalla sicurezza nazionale, ma che portano solo distruzione e morte. L’unica cosa che garantirebbe questa sicurezza sarebbe uno Stato palestinese, con confini definiti.



La trattativa per la tregua e la liberazione degli ostaggi sembra sempre sul punto di decollare, ma poi l’attesa si prolunga. Cosa manca per trovare un accordo?

È una trattativa complessa e delicata, soprattutto perché i due protagonisti, Hamas e il governo Netanyahu, si stanno giocando la loro sopravvivenza. Per Hamas riuscire a non scomparire in questa guerra è fondamentale per continuare a esistere. Per vincere gli basta sopravvivere. Per Netanyahu, però, è in ballo l’esistenza del suo governo: già fare una tregua per scambiare ostaggi e prigionieri per lui significa correre il rischio della fine dell’esecutivo. Smotrich e Ben Gvir lo hanno detto ripetutamente: la loro priorità non sono gli ostaggi, ma tornare a Gaza. L’ideale sarebbe che Hamas fosse veramente ai minimi termini: gli egiziani li convincerebbero a cedere. Ma questo è tutto da vedere, probabilmente non sono in questa situazione.



Il 10 marzo inizierà il Ramadan e l’auspicio almeno degli americani è di trovare un’intesa prima che inizi. Quanto può incidere questo particolare periodo sulla guerra e sulle trattative?

Il Ramadan è sempre un periodo delicato. Il digiuno significa un’esaltazione dell’elemento religioso islamico e gli israeliani tendono a non fare entrare i palestinesi a Gerusalemme, soprattutto nella città vecchia, per andare a pregare alla Spianata delle moschee. Se c’è tensione è il momento in cui questa si raddoppia, se non c’è è l’occasione perché si ricrei. L’anno scorso la polizia di frontiera, paramilitare, è entrata nella moschea di Al Aqsa, la terza più importante dopo La Mecca e Medina, e ha colpito con il calcio dei fucili i palestinesi che stavano pregando. Gerusalemme, d’altra parte, è sempre l’inizio di tutto. Gran parte dei conflitti scoppiano per qualcosa che succede lì.

Il ministro della Difesa Yoav Gallant dice che Iran, Hezbollah e Hamas vogliono fare del Ramadan un secondo 7 ottobre. Il livello di allarme è così alto?

Il 7 ottobre è successo perché gli israeliani dormivano. Difficile che possa accadere un altro evento del genere. Quella di Gallant è solo una sparata. Quando sentiamo la conta dei morti ci dicono che la fonte è il ministero della Salute palestinese, controllato da Hamas, come se per questo non dovessimo dar credito a quei numeri. A parte il fatto che i funzionari sono di Fatah, perché Hamas si è sempre rifiutata di governare la Striscia considerandola una base militare in cui i civili non sono cittadini ma scudi umani, sono cifre che, poi, vengono confermate da OMS e Dipartimento di Stato USA. Quando le dichiarazioni sono degli israeliani, invece, nessuno dubita. Eppure sostengono da quattro mesi che Hamas è alle corde, mentre sta lanciando ancora razzi verso Tel Aviv.

L’ottimismo di Biden per la conclusione in tempi brevi della trattativa per una tregua è fondato o è solo un suo auspicio?

CIA e Dipartimento di Stato trattano con Egitto e Qatar. Gli avranno dato informazioni in questo senso. È una situazione talmente complicata che oggi c’è pessimismo e domani no. Forse si è lasciato prendere la mano in un momento in cui gli hanno detto che l’intesa era vicina.

Fonti del Qatar dicono che c’è un accordo di massima sulla tregua e lo scambio di ostaggi, salvo poi precisare che non si è trovato un punto di equilibrio sui dettagli. Di strada da fare, quindi, ce n’è ancora molta?

È nei dettagli che si nasconde il diavolo. Si può essere d’accordo a grandi linee, ma poi, ad esempio, bisogna vedere quanti e chi sono i prigionieri da liberare. Se ci sono personaggi come Marwan Barghouti, che poteva essere leader dei palestinesi ma al quale sono stati comminati quattro ergastoli, gli israeliani possono opporsi. E lo stesso possono fare se i palestinesi chiedono tre mesi di cessate il fuoco e non 15 giorni. I dettagli sono la vera sostanza.

Una delle ipotesi di cui si è parlato è di scambiare 40 ostaggi con 400 prigionieri palestinesi. Può essere una base su cui trattare?

Le proporzioni possono essere queste. I prigionieri palestinesi comunque sono tanti, ci sono qualcosa come 7-8mila prigionieri politici.

Qualcuno sostiene che Israele libererebbe anche 15 personaggi di spicco. Potrebbero scarcerare Barghouti o qualche altro esponente della stessa importanza?

Non so se succederà adesso, durante la guerra, ma prima o poi succederà, come insegnano l’Irlanda del Nord o il Sudafrica. Mandela aveva creato il gruppo armato dell’ANC, poi è diventato il personaggio che conosciamo. La classe dirigente vera, del futuro, ora è nelle carceri israeliane. Barghouti, tra l’altro, non appartiene alla generazione di Arafat e Abu Mazen, ai palestinesi dell’esilio, è nato e cresciuto in Palestina e ha conosciuto direttamente l’occupazione. Parla perfettamente ebraico ed è sempre stato un politico moderato, critico con Arafat. Era armato quando c’era la guerra. Per gli israeliani chi uccide un colono è un terrorista, per i palestinesi è uno che lotta per la liberazione della Palestina. Punti di vista diversi che alla fine di un conflitto possono incontrarsi.

L’IDF è entrata per l’ennesima volta in Cisgiordania, a Jenin, usando droni e armamenti pesanti. Anche bulldozer per rendere inutilizzabili alcune infrastrutture. Proprio mentre la segretaria del Tesoro USA, Yellen, mette in guardia Netanyahu invitandolo a sostenere lo sviluppo della Cisgiordania. Un altro fronte in cui la tensione si sta alzando troppo?

Ogni volta che l’esercito entra nelle città della Cisgiordania distrugge le infrastrutture con i bulldozer: elettricità, condotte dell’acqua. Hanno ganasce che, quando passano, rompono il selciato. Lo fanno soprattutto da quando c’è questo governo, la cui intenzione è di rendere per quanto possibile invivibili questi territori. Uccidono civili, donne e bambini e distruggono quello che possono. La Yellen ha ragione: visto che gli USA pensano alla ricostruzione, più si distrugge e più sarà difficile risistemare tutto. Per gli israeliani, la sicurezza nazionale è la priorità, e c’è da capirli. Ma la cosa che può dare garanzia di sicurezza allo Stato di Israele è la nascita di uno Stato palestinese: una nazione è sicura se ha frontiere sicure. Fatah, d’altra parte, cioè l’ANP, riconosce Israele da 30 anni.

Delle dimissioni del governo palestinese, cosa si può dire? Sono un gesto di facciata o c’è della sostanza?

I palestinesi, diversamente dal governo Netanyahu, ascoltano le richieste degli americani: è una condizione fondamentale per costruire il “day after”. Sanno che la loro classe dirigente deve cambiare. Senza Hamas.

(Paolo Rossetti)

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