Il Governo italiano è in trattative avanzate con la casa automobilistica cinese “Dongfeng Motors” per l’apertura di uno stabilimento produttivo che possa fungere da hub per tutta l’Europa. La recente missione del Governo in Cina avrebbe dato un nuovo impulso alle negoziazioni. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha dichiarato che “sono stati sottoscritti Nda (accordi di riservatezza, ndr) e MoU (lettera di intenti, ndr) tra il Mimit e tre case automobilistiche cinesi. In agosto e settembre sono previsti ulteriori incontri con imprese cinesi dell’automotive”.
Il settore automobilistico è, ancora oggi, la parte più importante del comparto industriale anche come impatto occupazionale. Il Governo italiano è quindi giustamente preoccupato per le prospettive del comparto auto. L’Italia non ha più un costruttore nazionale, le attività a più alto valore aggiunto, si pensi alla ricerca, sono da tempo migrate fuori dal Paese. La fusione tra Fiat e Chrysler almeno rendeva possibile assegnare all’Italia un ruolo di primo piano sul mercato europeo e sui veicoli con bassa cilindrata; quella con Stellantis ha invece decretato la fine di questa ambizione e lo spostamento su Parigi delle attività a più alto valore aggiunto. Stellantis, ricordiamo, vede il Governo francese al terzo posto tra i principali azionisti.
Negli ultimi anni, in Italia, ai soliti problemi di burocrazia e tasse si è aggiunto quello dei costi perché i prezzi dell’elettricità sono i più alti d’Europa e tali rimarranno nell’immediato futuro. Il sistema-Paese italiano non offre vantaggi economici e non può contare su un costruttore con un occhio di riguardo.
Per questo il Governo deve pensare fuori dagli schemi ed è obbligato a “sentirsi molto libero” sulla scelta dei partner. Dentro lo schema di sempre il settore auto italiano si avvia verso un declino strutturale.
L’Italia, non avendo più costruttori nazionali da difendere e non avendo più nulla da perdere, può offrire ai costruttori cinesi l’opportunità di una base industriale dentro l’Europa in un quadro in cui aumentano i rischi di guerra commerciale.L’Europa probabilmente non sarà contenta, ma quando si arriva al cuore degli interessi industriali ogni Stato dell’Unione, per quanto possibile, gioca in proprio.
Possiamo ovviamente discutere di quanto ricchi siano questi investimenti cinesi. A differenza del motore termico, che ha bisogno di una componentistica industriale sterminata, quello elettrico è infinitamente più semplice e tutto si gioca sulle batterie, il software che le gestisce e l’elettronica. È possibile che questi investimenti siano “poveri” dal punto di vista del contenuto tecnologico che rimarrebbe in Cina.
Queste preoccupazioni però non possono essere un’obiezione. Se l’Europa ha deciso per la fine del motore termico, e quindi di tutta la sua componentistica, se il futuro è solo l’elettrico, allora i costruttori europei devono fare massa e tagliare qualsiasi extra costo possibile, soprattutto nei Paesi che non offrono vantaggi come l’Italia. L’Italia che non ha più costruttori “nazionali” non ha assi nella manica in questa partita.
L’ultimo punto è quello geopolitico. Persino Trump non è contrario ai cinesi nella misura in cui costruiscono sul suolo americano. I problemi “politici” per l’Italia forse non arriveranno dall’America ma dall’Europa. In ogni caso è bene trattare fino in fondo con tutti per presentarsi in Europa e con i partner dell’Unione da una posizione negoziale un po’ meno debole.
Tutte le svolte del “settore automobilistico” italiano degli ultimi dieci anni sono state salutate da un coro quasi unanime di approvazione. Il risultato è quello che vediamo. Se questi ultimi tentativi venissero accolti con scetticismo avremmo la risposta che cerchiamo. Significa che vanno nella direzione giusta.
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