C’è una regola non scritta che chiede di diffidare da quelle opere in cui l’autore nomina libri, film, artisti e altre opere in continuazione, come a voler far capire al pubblico che lì “c’è della cultura”: Tre sorelle – il nuovo film di Enrico Vanzina – comincia radunando in pochi secondi un esergo di Conrad, una citazione di Cechov detta dalla voce fuori campo che ironizza sul titolo e una contro-citazione in cui si spiega che più che a Cechov il film “guarda” a Tolstoj e continua così, per non parlare del personaggio di Chiara Francini, costumista per il cinema, che dice il nome di un regista una battuta sì e una no.
Probabilmente il motivo per cui Vanzina, anche sceneggiatore, lo fa è per suggerire allo spettatore una raffinatezza diversa dal solito, per elevare con le parole la storia di tre sorelle che per motivi diversi si ritrovano nella casa di vacanza al Circeo, cercando di ritrovare un punto di partenza alla propria vita, tra i soliti amori, equivoci, baruffe da pochade svogliata.
Prodotto da Mediaset e distribuito da Amazon Prime Video, Tre sorelle è una commedia al femminile, che dovrebbe parlare di sorellanza e raccontare il rapporto tra tre donne fragili e complesse e una serie di uomini inadeguati o semplicemente idioti; è un pretesto, molto vicini ai tempi che corrono, per fare il consueto gioco vanziniano di corna e sentimenti, a cui le citazioni, appunto, dovrebbero dare uno spessore.
È un’operazione in cui il regista – al secondo film dietro la macchina da presa – si impegna, come se la destinazione della streaming lo portasse a confrontarsi con un altro pubblico, diverso da quello tv di cui nel corso degli anni ha preso le misure, più esigente o raffinato, almeno nella sua percezione, per cui oltre a decorare di menzioni rinomate i suoi dialoghi di circostanza o le battutacce, cerca spesso il sentimento, la riflessione più o meno seria attorno alle vite dei suoi personaggi, oppure trovatine ironiche come la voce over che ammicca al pubblico, i personaggi che un po’ a caso parlano alla macchina da presa.
Resta però il fatto che nella pratica tutto questo pare una copertura flebilissima, che non maschera l’approssimazione della regia, le macchiette e le banalità del copione, le imbarazzanti parentesi trasgressive, la recitazione a briglia sciolta di un gruppo di attori fuori parte (unica eccezione: la suddetta Francini, la sola a cui il testo offre buone battute che sa sfruttare bene).
Soprattutto, sorprende che in un film che vorrebbe sentire e capire lo spirito dei tempi ci sia ancora spazio per la misoginia latente a cui il plot fornisce un comodo paravento, il conciliante perbenismo che odora ancora e sempre di prima serata Mediaset, in cui tutto è televisivo (a partire dalle brutte immagini) anche nel senso di piatto, fermo, spento, a misura di un pubblico che si immagina addormentato o distratto.
A un certo punto, all’ennesima spiegazione inutile di una cosa già chiara, una sorella dice all’altra: “Ho capito, nun so’ tonta”. Probabilmente Vanzina pensa che lo siano gli spettatori, quei pochi rimasti ancora per un film del genere.
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