Le ultime pressioni sono state quelle di Russia e Cina. Ma a chiedere a Tel Aviv di far tacere le armi a Gaza sono state soprattutto l’Italia, la Ue e gli americani. La Camera ha detto sì “a sostenere ogni iniziativa volta a chiedere un immediato cessate il fuoco umanitario”, come riportato in una mozione del Pd firmata da Elly Schlein. E questo dopo che il ministro degli Esteri Tajani aveva giudicato sproporzionata la reazione israeliana al 7 ottobre. Biden, invece, ha sottolineato la necessità almeno di approntare un piano per salvaguardare i civili in caso di attacco massiccio a Rafah, anche se poi non è chiaro fino a che punto voglia veramente influire sui suoi alleati. Intanto al Cairo, Cia, Mossad e Shin Bet avrebbero ripreso a parlare con il Qatar e gli egiziani sulla possibilità di una tregua, quella che secondo il presidente americano dovrebbe essere di sei settimane, da utilizzare anche per cercare di realizzare qualcosa di più duraturo. Nonostante questo, spiega Vincenzo Giallongo, colonnello dei Carabinieri in congedo con al suo attivo missioni in Iraq, Albania, Kuwait e Kosovo, è difficile che Israele accetti di sospendere le operazioni militari in un momento cruciale della guerra, alla vigilia di un’azione in grande stile a Rafah, nel Sud della Striscia. La tregua, insomma, nonostante tutte le pressioni, non è proprio dietro l’angolo: Israele ha consegnato all’Egitto un piano per evacuare la popolazione palestinese, sistemandola in 15 siti con 25.000 tende tra Gaza City e la stessa Rafah. Segno che la volontà di attaccare è ancora intatta.
Colonnello, le richieste a Israele per un cessate il fuoco a Gaza sono sempre più pressanti: basteranno per indurre Netanyahu a trovare un accordo?
C’è un clima di scarsa disponibilità nei confronti di Israele e tutte le prese di posizione contro la guerra, contro il genocidio, fanno in modo che anche i Paesi alleati premano su Tel Aviv perché accetti un cessate il fuoco, quanto meno di qualche settimana. Credo, però, che Israele non sia disponibile: il giorno in cui si fermeranno, Netanyahu “andrà a casa” e se la tregua dovesse essere sufficientemente lunga, potrebbe già essere l’occasione per un rimpasto di governo. Penso che non siano disponibili neanche le forze armate, che ormai si sentono a un passo dal successo: si tratta di conquistare questa ultima città dove, però, pare siano schierati cinque battaglioni di Hamas. Batterli sarebbe un grosso danno per l’organizzazione palestinese.
In questi giorni Biden ha detto che la reazione di Israele è stata esagerata e che si lavora per una tregua di sei settimane. È trapelato anche un insulto che sarebbe stato indirizzato nei confronti di Netanyahu per la sua opposizione a ogni trattativa. Sta cambiando qualcosa nell’atteggiamento americano o sono solo parole?
Che si stiano facendo sentire alzando un po’ il tono è un dato di fatto. Ho qualche dubbio che abbiano la forza di costringere Israele a cambiare strategia. L’insulto a Netanyahu fa parte della situazione, ma un conto sono le espressioni a cui ci si lascia andare entro quattro mura, un conto quello che si fa effettivamente dal punto di vista istituzionale. Israele rimane uno dei più importanti alleati degli USA.
Ma gli americani, per indurli a più miti consigli, non possono minacciare gli israeliani di non fornire più armi e munizioni?
Gli israeliani potrebbero rispondere chiedendo aiuto alle grandi banche ebraiche americane. No, non possono arrivare a questo punto: sarebbe un grosso danno per entrambi. Credo che gli USA possano passare a un livello superiore di protesta e che alla fine qualcosa Tel Aviv cederà. Non la vedo, comunque, né una cosa di oggi né una cosa di domani. Ci vorrà tempo. Anche perché Hamas tiene ancora. E chiede la liberazione dei responsabili di azioni terroristiche di un certo peso. Se riuscissero a farli liberare, potrebbero più facilmente far proseliti fra la popolazione palestinese. Avrebbero dei capi in grado di farsi ascoltare e seguire.
La partecipazione di Mossad e Shin Bet agli incontri in Egitto sulla tregua non significa quindi che si vada in quella direzione?
Nel momento in cui vengono invitati a un tavolo di trattativa ci vanno. Per sentire quello che hanno da dire gli altri. Da qui a pensare che si possa arrivare a un accordo ne passa. Se si otterrà un cessate il fuoco, non sarà in tempi brevi.
La dichiarazione di Biden che si lavora per una tregua di sei settimane nel corso della quale cercare di costruire qualcosa di più duraturo rimane quindi una sua intenzione?
È un auspicio. Alle sei settimane ci si potrebbe arrivare, non alla liberazione di determinati personaggi dalle carceri israeliane. Se quella fosse la condizione sine qua non di Hamas, credo che non ci sarà nessuna intesa. I colloqui, invece, potrebbero servire a individuare una collocazione per gli sfollati palestinesi. Israele avrebbe un piano.
Secondo il Wall Street Journal si tratterebbe di 15 siti con 25.000 tende fra Gaza City e Moassi, una località a nord di Rafah, con strutture pagate dagli USA e Paesi arabi. Un progetto realizzabile?
Sarebbe una grossa fortuna per i palestinesi, che si toglierebbero dalle zone di guerra. Credo che ci sia un’area individuata anche in territorio egiziano, perlomeno sul limitare. Vedo ugualmente difficile la realizzazione perché sarebbe un duro colpo per Hamas.
Ma questa soluzione basterebbe per tenere i civili fuori dal conflitto?
Il piano sarebbe stato studiato proprio per allontanare la gente da Rafah. Ci rimetterebbe solo Hamas, che si troverebbe senza la protezione della popolazione.
Ci vorrà del tempo anche per organizzare la tendopoli dei palestinesi?
Il problema non è l’attesa, ma impedire a Hamas di fortificare le sue posizioni. Se anche dovesse ottenere sei settimane di tempo ormai l’ala militare è schiacciata in un angolo e faranno in modo che non le giungano rifornimenti di nessun tipo.
Quindi la tregua potrebbe essere utilizzata per piantare le 25.000 tende?
È possibile. Penso comunque che Hamas dirà di no perché il suo obiettivo è di rimettere in libertà i capi che sono in prigione, farli tornare a combattere trascinando al loro seguito altre persone, guidate dal loro esempio. Per questo Israele non li libererà. Fossi stato in Israele, non avrei parlato di questo piano, anche se poi magari è uscito grazie a indiscrezioni giornalistiche: solo perché è attribuito al governo Netanyahu, gli altri lo guarderanno con diffidenza. Sarebbe stato meglio presentarlo come se fosse di provenienza americana o frutto dell’idea di qualche altro Paese.
L’alleanza USA-Israele resterà salda?
Sono l’uno il migliore alleato dell’altro nell’area, arriveranno a un compromesso. Tutti e due ci rimettono a non andare d’accordo: presi singolarmente, il loro peso nella regione diminuirebbe in modo consistente.
(Paolo Rossetti)
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