Il singhiozzo della tregua a Gaza consente di respirare, almeno a tratti, nella speranza condivisa che possa evolversi se non in una pace vera, in un’oltranza non combattuta che veda il rilascio di tutti gli ostaggi civili ancora in mano ai terroristi di Hamas. La mediazione di Egitto, Qatar e – da remoto – Stati Uniti sta portando a qualche risultato, anche se sulla sorte degli ostaggi militari catturati il 7 ottobre non vi sono ancora certezze. “Siamo pronti a negoziare sui soldati dell’occupazione catturati, ma è un capitolo non ancora aperto” avrebbe riferito un portavoce di Hamas all’emittente Al Araby. I tre detenuti palestinesi liberati per ogni ostaggio israeliano, insomma, non sarebbero sufficienti.
Il lavoro delle diplomazie sembra ancora lungo e difficile: il premier Benjamin Netanyahu ricorda che gli obiettivi della guerra restano “il recupero di tutti gli ostaggi, l’eliminazione di Hamas e impedire che Gaza torni a essere una minaccia per Israele”. Da una parte la tregua e, si spera, la prospettiva di una pace duratura, dall’altra la road map israeliana. In mezzo, Netanyahu subisce le pressioni dei familiari degli ostaggi, che spingono a trattare; quelle degli estremisti nazionalisti di Tel Aviv, che invece non vorrebbero nessuna tregua alla guerra; quelle degli alleati, come gli Usa, che per il post-conflitto tornano a sostenere la necessità di uno Stato palestinese indipendente; e quelle schizofreniche del mondo occidentale. Un mondo dove una schiera di Paesi ondivaga tra la solidarietà ad Israele per aver subito la sanguinosa aggressione di Hamas e la passione movimentista che sostiene il popolo palestinese, stendendo un velo sui massacri operati dai palestinesi di Hamas e sulle misere condizioni di vita imposte dagli stessi terroristi nella Striscia, che da sempre sfruttano gli aiuti internazionali esclusivamente per la loro mission anti Israele. In casa nostra, basti pensare ai simboli filopalestinesi comparsi un po’ in tutte le recenti manifestazioni di piazza contro la violenza sulle donne, e nessun riferimento, simbolo, accenno al raid dei macellai di Hamas. E là dove rare bandiere israeliane erano spuntate, sono state rapidamente fatte a pezzi.
Si ritorna a parlare di antisemitismo carsico, che in quest’occasione emerge sorretto anche dalla forza immaginaria di un Davide che lotta contro un Golia, un povero contro un ricco, in un’alternanza storica che vede oggi il Davide di un tempo, cioè il popolo ebraico sterminato dal nazismo e costretto a mille diaspore, divenuto un Golia potente, che però da sempre subisce un continuo stillicidio di attentati, razzi, cannonate, pilotato da altri Golia che preferiscono restare in retrovia e muovere i pedoni.
Dal 7 ottobre alla scorsa settimana sullo Stato ebraico sono caduti circa 9mila missili, tra Holon, Tel Aviv, Rishon Lezion, Ashdod, Ashkelon, Petah Tikvah, nonostante l’occupazione del quadrante nord della Striscia. È appunto questo scenario a preoccupare perché, se le tregue e la pace dovessero lasciare sul campo una specie di semilavorato inconcludente, si sarebbe esattamente al punto di prima, anzi: sarebbe peggio, vista l’esacerbazione delle rispettive posizioni, la rabbia montante delle popolazioni islamiche, ma anche il timore israeliano di non aver affatto eliminato la possibilità di subire nuovi attacchi. Una non-bonifica dal terrorismo non può consentire una pax duratura, nemmeno con la creazione (difficile, ma non impossibile) di un doppio Stato.
Eppure, le divergenti pulsioni nel governo di Tel Aviv, l’eroso carisma del premier israeliano, e le ambiguità di mezzo mondo (anche tra gli stessi mediatori: il Qatar, ad esempio, ospita una gigantesca base militare Usa ma accoglie da anni anche la leadership di Hamas), portano a prevedere proprio il ripristino di una situazione molto levantina, in cui si finge il bianco pensando al nero. Con ebrei e palestinesi destinati a contendersi ancora gli stessi lembi di terra da tutti considerati promessi, un confronto di etnie e credi dietro il quale però si muovono interessi ben poco religiosi, in un Risiko cruento con in palio l’influenza o la leadership dell’intero Vicino e Medio Oriente.
La missione militare israeliana a Gaza, quindi, per raggiungere davvero gli obiettivi dovrebbe essere affiancata da una poderosa azione socio-culturale-economica, mediata anche con il supporto dell’Autorità palestinese della Cisgiordania, la stessa che Hamas espulse da Gaza con le armi. Solo con il coinvolgimento della popolazione in un processo democratico di pace, ricostruzione, autonomia si potrebbe arrivare ad uno Stato-Gaza finalmente guarito dal terrorismo.
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