Biden l’ha definita una risposta esagerata. Perché le richieste messe sul tavolo da Hamas in termini di prigionieri da liberare (1.500 compresi quelli in carcere per reati pesanti) e lunghezza della tregua (45 giorni per ognuna delle tre fasi, quindi 4 mesi e mezzo) sono effettivamente alte. Ma almeno ora, spiega Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia e collaboratore di Avvenire, c’è qualcosa di concreto di cui parlare. Nella trattativa fra Israele, il cui governo ha già definito impossibile la realizzazione delle proposte avanzate dalla controparte, e l’organizzazione palestinese, paradossalmente la questione degli ostaggi, che prima era la priorità, sembra diventata un tema di contorno, anche se uno dei motivi per cui Netanyahu ha preso in considerazione la possibilità di un cessate il fuoco è proprio la pressione interna esercitata dai familiari delle vittime. Le parole del premier israeliano non sembrano lasciare spiragli per trattare e ufficialmente l’unica prospettiva per lui è quella della vittoria militare.



Nel frattempo, secondo dati dell’intelligence, i rapiti rimasti ancora in vita non sono più 136, ma 32 in meno, morti mentre le trattative andavano per le lunghe. Intanto incombe anche il pericolo di un allargamento della guerra in Libano. Israele vuole un arretramento di Hezbollah ma non si riesce a trovare un accordo. E allora minaccia un intervento militare. Anche su questo fronte gli sfollati sono una marea: 86mila da parte libanese, 100mila da quella israeliana. Tutta gente che aspetta di tornare nelle proprie case.



La risposta di Hamas sulla tregua è arrivata, ma le parti non sembrano ancora vicine. Su cosa si discute? Il punto dirimente resta quello del cessate il fuoco?

Hanno pubblicato i dettagli delle richieste di Hamas: vogliono che dalle carceri israeliane siano liberati 1.500 prigionieri, tra cui 500 con condanne alte o ergastoli, comprendendo tutte le donne, i bambini e gli anziani. Ogni fase delle tre previste per realizzare il piano dovrebbe durare 45 giorni. Si parte da una tregua, ma si chiede il ritiro israeliano e la ricostruzione delle case distrutte entro tre anni. Nel frattempo vengono chieste 60mila unità abitative provvisorie e 200mila tende come prima fase della ricollocazione degli sfollati. E poi 500 camion al giorno per i rifornimenti, la libera circolazione tra Gaza Nord e Sud, lo stop delle incursioni dei coloni contro la moschea Al Aqsa.



Ma il punto che divide le parti è ancora il cessate il fuoco definitivo voluto da Hamas e non da Israele?

Tre fasi di 45 giorni significano 4 mesi e mezzo, un periodo lungo. La richiesta iniziale era di 4 mesi, a questa Israele aveva ribattuto con un’offerta di due settimane. Sono stati indicati anche quelli che dovrebbero essere i Paesi garanti di questo accordo: Egitto, Usa, Russia e Turchia. Una scelta, quest’ultima, almeno per alcuni Paesi tutta da capire.

Quello che viene chiesto, insomma, è una tregua talmente lunga che assomiglia a un cessate il fuoco?

Si può chiamarla come si vuole. Hamas non vuole tregue che siano di dieci giorni per poi riprendere a combattere senza avere più gli ostaggi.

Nelle richieste, invece, è ben presente il tema degli sfollati. Come vogliono intervenire?

La città di Gaza è quasi del tutto distrutta, un loro ritorno prima che siano allestite le unità abitative e le tende è problematico. Questa, comunque, è la risposta di Hamas, le sue condizioni per un’intesa. Se Israele avrà qualcosa da modificare sottoporrà le sue proposte a Egitto, Usa e Qatar. Poi si continuerà a trattare.

L’ennesimo viaggio di Blinken ha come obiettivo la trattativa per la tregua?

Era già programmato, ma arriva al momento giusto. Ora è tutto un via vai diplomatico, di emissari e ministri, come quello degli Esteri egiziano, che si sta dando molto da fare. Quello francese ha fatto il giro fra lo stesso Egitto, la Giordania e la Cisgiordania, Israele, Libano.

Il tema della trattativa, comunque, è già quello di cominciare a immaginare un futuro dopo la guerra?

Sì, perché per la prima volta ci sono contenuti abbastanza chiari, prima non era così. Si discute su qualcosa di concreto. Poi sappiamo che questa non può essere la proposta definitiva: si comincerà a trattare sul numero dei prigionieri o su altri punti. Le richieste possono essere state pubblicate da Hamas anche per mettere all’angolo gli israeliani: l’opinione pubblica dopo la notizia della morte di altre decine di ostaggi vuole accelerare l’accordo per evitare che altri facciano la stessa fine. Dobbiamo tenere presente che ormai siamo entrati nel quinto mese di guerra. Gli americani, poi, stanno premendo perché più dura il conflitto più Biden rischia in termini elettorali.

La vicenda degli ostaggi, tuttavia, sembra quasi restare sullo sfondo: la trattativa è molto serrata ma sembra che le ragioni che muovono le parti ora siano altre. È così?

Dopo la notizia di fonte israeliana per cui 32 (su 136 rimasti) sono già morti, questo problema per certi versi sembra diventato quasi secondario. Però in Israele in questi giorni si è manifestato per chiedere addirittura le dimissioni del Governo, contestato pure per l’incapacità di liberare gli ostaggi. L’importante, in questo momento, è negoziare, perché né da una parte né dall’altra le popolazioni civili possono attendere.

Intanto continuano le dichiarazioni del ministro della Difesa Yoav Gallant che minaccia un intervento armato in Libano. Israele vuole che Hezbollah indietreggi. Perché è così importante questo fronte per Tel Aviv?

La pressione israeliana su questo punto va tenuta in considerazione. Nel Sud del Libano sono state sfollate 86mila persone e lo stesso è successo nel Nord di Israele per circa 100mila persone. Le ultime proposte fatte arrivare al governo libanese prevedono il ritiro di Hezbollah per una dozzina di chilometri dal confine in modo che gli israeliani possano ritornare nelle loro case. I missili di Hezbollah possono superare questa distanza ma quantomeno non sono proprio sul confine. Verrebbe previsto il dispiegamento dell’esercito libanese e dell’UNIFIL lungo la frontiera. Bisogna vedere cosa si intende, però, per ritiro di Hezbollah: devono scomparire le armi o se ne devono andare anche i suoi uomini, che però abitano nei villaggi della zona?

Ma i colloqui su questo tema a che punto sono?

Il mediatore, Amos Hochstein, israeliano con cittadinanza americana, non è passato per Beirut come ci si aspettava. È andato a Tel Aviv, ha sottoposto il piano ed è tornato in America. Una mossa che ha messo un po’ in allarme le autorità libanesi: temono che gli israeliani non siano d’accordo. In cambio, il Libano avrebbe la promessa di negoziare la soluzione di alcune controversie che riguardano la zona intorno alla linea blu, il confine provvisorio tra i due Paesi. Si tratta di 13 punti escluso il caso delle fattorie di Sheeba. Se la vicenda non si risolve per via diplomatica, rimane l’opzione di una soluzione militare da parte di Israele.

Per il Libano, quindi, non è ancora chiaro quale sia il piano per risolvere la questione?

C’è anche un altro elemento che sta complicando la situazione. Il capo del parlamento libanese, Nabih Berri, ha annunciato la partecipazione del suo movimento, Amal, che è sempre sciita, ai combattimenti. Gli emissari vengono per trattare con lui come capo di una istituzione, ma adesso è tornato ad essere anche il capo di un partito armato.

Della Cisgiordania, intanto, si parla sempre meno. Eppure nel solo mese di gennaio ci sarebbero stati oltre 1.500 attacchi contro i palestinesi. Un territorio sempre sotto assedio?

Guardo le segnalazioni delle incursioni delle unità israeliane e dei coloni. Prendendo ad esempio un lasso di tempo di cinque ore nella zona di Jenin, a Houra nel Negev, a Tulkarem, Tubas, a Nablus e all’area di Hebron ce ne sono state una decina. La pressione è sempre molto alta.

(Paolo Rossetti)

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