La tregua è finita. Si torna a bombardare. Secondo Israele Hamas ha violato gli accordi, perché non ha liberato tutte le donne che doveva e ha lanciato razzi verso il nemico, ma al di là delle dichiarazioni ufficiali Tel Aviv temeva che un cessate il fuoco prolungato allontanasse troppo la conclusione delle operazioni militari, rendendole molto più difficili. Gli israeliani sarebbero ancora disposti a trattare per la liberazione di altri ostaggi, con tregua annessa, ma intanto si continua a sparare.
Ora, però, spiega Filippo Landi, già corrispondente Rai da Gerusalemme e poi inviato di Tg1 Esteri, si ripropone il tema degli sfollati palestinesi. L’IDF ha già cominciato a prendere di mira il Sud della Striscia, dove sono ammassati molti di loro e il rischio che sfondino il confine ed entrino in Egitto, ponendo al Cairo non pochi problemi per la loro accoglienza, diventa sempre più serio. La stessa cosa potrebbe succedere in Cisgiordania, con i palestinesi spinti verso la Giordania. Una situazione davvero esplosiva, visto che Amman aveva dichiarato apertamente che un’eventualità del genere equivaleva a una dichiarazione di guerra.
Per evitare tensioni con questi due Paesi la soluzione sarebbe di allontanare i miliziani di Hamas da Gaza, come era stato fatto con Fatah dal Libano nel 1982, trasferendoli in un altro Paese. Un piano non semplice da realizzare in un contesto in cui l’amministrazione americana rimane indecisa, pagando lo scotto delle divergenze tra il presidente Joe Biden e il segretario di Stato Anthony Blinken.
Come si spiega veramente la rottura della tregua? Le motivazioni ufficiali sono quelle autentiche?
La tregua è venuta meno non per violazioni vere o presunte, ma per la pressione di una parte del mondo politico israeliano e di una parte maggioritaria dell’esercito: ritengono che un proseguimento del conflitto sia possibile solo ora. Altrimenti bisognava prendere atto che la via militare era definitivamente preclusa nel confronto con Hamas e che si dovevano aprire, quindi, altri scenari politici. D’altra parte dal punto di vista mediatico non c’è stato dirigente del governo israeliano, dal ministro della Difesa allo stesso Netanyahu, che non abbia detto nelle ultime 48 ore che appena la tregua sarebbe cessata Israele avrebbe ripreso immediatamente i combattimenti. Il premier aveva comunicato al presidente Usa che sarebbe stato colpito anche il Sud di Gaza.
Qual è stata la risposta degli Stati Uniti a questa comunicazione?
L’amministrazione Usa ha tentennato, dichiarando che il diritto di Israele doveva essere compensato dallo sforzo per evitare nuove vittime civili, soprattutto al Sud della Striscia, dove ormai l’affollamento della popolazione è enorme. Lascia perplessi che la ripresa dei bombardamenti sia avvenuta praticamente in presenza in Israele e nel Medio Oriente del segretario di Stato americano Blinken, segno che all’interno dell’amministrazione americana c’è una divisione tra la Casa Bianca, più attenta all’esigenza di mantenere i rapporti con gli Stati mediorientali, ma anche asiatici, africani e latinoamericani, che su questa vicenda chiedono un permanente cessate il fuoco e una soluzione politica, e la segreteria di Stato. Blinken ha detto pubblicamente che oltre a ricoprire la sua carica è anche ebreo, elementi che fanno capire che da parte della Segreteria di Stato forse non c’è stato un via libera alla ripresa dei bombardamenti, ma di certo neanche una forte opposizione.
Biden nei giorni precedenti aveva dichiarato che continuare la guerra era fare un favore ad Hamas. Israele ha rotto la tregua per questo motivo, perché non può accettare questa prospettiva?
Alcune importanti dichiarazioni di Biden che prefiguravano un cessate il fuoco permanente e l’apertura di un fronte politico che riguardasse Gaza come pure Cisgiordania e Gerusalemme Est, hanno pesato sulla scelta israeliana di cogliere ogni occasione per riprendere i bombardamenti. Si è riflettuto sulla possibilità che l’attentato di Gerusalemme fosse una violazione della tregua di fatto o di diritto? Evidentemente no, perché gli stessi israeliani erano consapevoli che qualcosa sarebbe accaduto dopo giorni e giorni di raid dell’esercito, non solo dei coloni, in Cisgiordania. Una circostanza che ha molto spaventato gli Usa, ancora di più di quella di Gaza. Il triste casus belli è stata l’uccisione praticamente a freddo di due ragazzi di 8 e 15 anni a Jenin, colpiti alle spalle da cecchini dell’esercito. Un attacco difficile da giustificare. La reazione dell’attentato paradossalmente è nella storia del conflitto tra le milizie armate palestinesi e l’esercito israeliano, che coinvolge anche i civili e non appartiene alla vicenda più immediata, quella di Gaza.
Ci sono altre ragioni che hanno indotto Israele a rompere la tregua?
Secondo gli esperti israeliani il rilascio dei palestinesi dalle prigioni si stava rivelando un boomerang mediatico. Le dichiarazioni delle donne e dei bambini liberati, censurate all’interno di Israele ma non fuori, raccontano di persone che poco si sposano con la narrazione ufficiale che parla di terroristi, ma spiegano la storia di detenuti talvolta arrestati per futili motivi o per condizionare i loro parenti, tenuti in condizioni di vita molto precarie e in taluni casi con abusi fisici e psichici. Un boomerang mediatico che si è voluto troncare anche a scapito di una trattativa che aveva dato buoni frutti: più di 100 ostaggi in mano ad Hamas di cui 80 israeliani sono tornati a casa. In questo numero vanno calcolati anche gli accordi come quelli stretti da Hamas con il governo thailandese e russo, per la liberazione degli stranieri o di coloro che avevano doppio passaporto.
Il Qatar si è subito affrettato a dire che le trattative per liberare le persone rapite andranno avanti e una disponibilità sarebbe stata espressa anche da Israele. Ora però che prospettiva apre la ripresa del conflitto?
La ripresa dei bombardamenti, che riguarda il Sud, Khan Yunis, addirittura Rafah, pone con forza una questione politica a tutti gli altri Paesi: qual è lo sbocco di questa vicenda? Nell’immediato, se continua la pressione militare, ci si può aspettare lo sfondamento del confine di Rafah da parte degli sfollati e la necessità di allestire nel Sinai nuove tendopoli per ospitare, non si sa fino a quando, i palestinesi. Sull’altro fronte si accentua una preoccupazione, forte non solo ad Amman ma anche a Washington, quella di una esplosione della Cisgiordania e dell’inizio della fuoriuscita dei palestinesi verso la Giordania. Non solo il re giordano Abdallah, ma anche altri esponenti arabi avevano detto che quella era la red line, da non oltrepassare. Il no a questa eventualità è motivato dal fatto che non si vuole ripetere la Nakba del 1947-48. Ora che il gioco è chiaro, l’amministrazione Biden in particolare deve uscire allo scoperto.
C’è una soluzione per evitare una situazione potenzialmente pericolosissima come questa?
Per evitare l’evacuazione di due milioni di palestinesi si chiederà ad Hamas di fare uscire i suoi miliziani dalla Striscia, in condizioni di sicurezza per loro, per trasferirli in altri Paesi arabi, rifacendo quello che è successo in Libano nel 1982, quando Arafat e una parte dei combattenti di Fatah furono imbarcati sulle navi in direzione di Tunisi. La grande differenza è che Arafat e i suoi erano in qualche modo ospiti in Libano, Hamas è dentro la popolazione palestinese a Gaza e in Cisgiordania. Hamas non è come l’Isis, la soluzione dei miliziani in uscita ha qualche difficoltà in più per essere accettata.
Dove potrebbero finire i miliziani di Hamas, in Iran?
No, tutt’altro. L’unico intervento dell’Iran è stato finora quello dei suoi combattenti nello Yemen. Le ipotesi potrebbero essere la Turchia, lo stesso Egitto e la Siria. La carta propagandistica dell’Iran dietro l’iniziativa di Hamas si è rivelata un bluff.
(Paolo Rossetti)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.