L’ultimatum di Israele ad Hamas (“Sette giorni per firmare l’intesa altrimenti entriamo a Rafah”) non favorisce le trattative per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco. Trovare un punto di equilibrio non sarà facile, perché l’alternativa è tra la fine della guerra voluta dai terroristi palestinesi e una tregua che non infici il proseguimento delle operazioni militari dell’IDF. Alla fine, però, non è detto che non si arrivi a una soluzione. Neanche che Smotrich e Ben Gvir, una volta accettata di fatto la conclusione dei combattimenti, escano per forza dall’esecutivo Netanyahu.



Secondo fonti egiziane Hamas sarebbe orientata a concedere la liberazione di qualche ostaggio anche senza l’assicurazione della fine della guerra, entrando in sintonia con quella parte dell’opinione pubblica israeliana (il 54%) che preferisce liberare i rapiti piuttosto che entrare a Rafah.

La situazione rimane molto complessa, spiega Filippo Landi, già corrispondente Rai da Gerusalemme e poi inviato del TG1 Esteri, con una serie di elementi da tenere in considerazione: le pressioni su Biden in seguito alle proteste delle università americane, ma anche il possibile mandato di arresto della Corte penale internazionale contro Netanyahu e altri esponenti israeliani.



Sul tavolo, anche se difficile da realizzare, ci sarebbe l’ipotesi della hudna, una tregua lunga, che potrebbe permettere almeno formalmente agli israeliani di non dover ammettere che il conflitto si è concluso. La fine della guerra potrebbe significare, comunque, la smilitarizzazione di Hamas.

Secondo fonti egiziane, e cioè l’emittente Al Qahera News, vicina ai servizi segreti, Hamas sarebbe disposta a liberare i primi ostaggi anche senza dichiarare la fine della guerra. Che cosa significherebbe questa mossa?

Notizie come questa indicano che c’è un interesse reale a trasformare una eventuale tregua in una realtà permanente che vada ben oltre quei 40 giorni di cessate il fuoco che prima Blinken e poi le fonti israeliane avevano offerto ad Hamas, considerandola un’offerta generosa. Un tempo considerato da molti troppo corto per qualsiasi tentativo di trasformare la tregua in un reale cessate il fuoco.



Se quello che dice il canale egiziano è vero, qual è l’obiettivo di Hamas? Hamas mette anche un po’ in difficoltà Netanyahu?

L’interesse di Hamas è di entrare in sintonia con quella parte dell’opinione pubblica israeliana che chiede la liberazione degli ostaggi ancora in vita anche in cambio della rinuncia a effettuare azioni militari a Rafah. In questo modo il punto centrale delle trattative diventa la liberazione dei prigionieri, non una ripresa della guerra secondo le richieste dell’attuale governo israeliano.

Secondo altre indiscrezioni Hamas avrebbe accettato la prima fase dell’accordo con l’assicurazione da parte americana che l’IDF non entrerebbe a Rafah. Con Israele che però smentisce la rinuncia all’operazione di terra. Perché non si riesce a uscire dal dilemma?

Si sta giocando un confronto di forma e di sostanza. Di forma, perché è evidente che un accordo non può fondarsi su un ultimatum come quello di Netanyahu o di Blinken. Il segretario di Stato USA in questi giorni si è espresso in modi non dissimili dal primo ministro israeliano. L’ultimatum, però, non può essere la premessa di un accordo: la forma va contro il cessate il fuoco. La sostanza invece è di altro tipo: è emerso l’interesse di Hamas a raggiungere un’intesa, ne va della sua credibilità, del rapporto tra la popolazione di Gaza e Hamas stessa. I nodi sono quelli che conosciamo: la possibilità di un cessate il fuoco che si trasformi nella fine della guerra come vuole Hamas e un cessate il fuoco che in realtà sarebbe una tregua temporanea nell’approccio di Netanyahu. Tutto questo mentre le manifestazioni in Israele, animate dai parenti degli ostaggi e da coloro che da molti mesi si oppongono al primo ministro e al suo governo di centrodestra, vanno nel senso di ottenere la liberazione degli ostaggi, mettendo da parte l’attacco terrestre a Rafah e con un accordo che porti alla fine del conflitto.

Un sondaggio dice che il 54% degli israeliani preferirebbe la liberazione degli ostaggi all’operazione a Rafah. È cambiato un po’ anche il sentire della gente?

L’opinione pubblica nella sua maggioranza, a giudicare dalle manifestazioni e dai sondaggi, ha maturato l’idea che il prezzo che Israele sta pagando per questa guerra contro Hamas, trasformata in guerra contro i palestinesi presenti a Gaza, sia troppo alto. Non solo in termini di vita degli ostaggi, ma anche di isolamento morale e politico rispetto alle opinioni pubbliche arabe, europee e dell’Occidente. E persino degli USA. Una situazione che si percepisce come un fatto gravissimo.

Per trovare un accordo qualcuno dovrà cedere: come si arriva a un’intesa? La soluzione potrebbe essere una tregua così lunga che di fatto verrebbe sancita la fine della guerra?

È stato rispolverato, giustamente, il termine che per molti anni vanamente si era cercato di sostanziare: la hudna, la tregua di lunga durata, una proposta politica proprio di Hamas che negli ultimi vent’anni Israele ha sempre rifiutato. Per l’organizzazione palestinese significava una tregua decennale che portasse anche alla fine del blocco commerciale, finanziario e umano a Gaza, da parte di Israele. Una tregua rifiutata dai governi di centrosinistra e centrodestra israeliani perché rappresentava un riconoscimento indiretto di Hamas nel suo aspetto politico. Questo per alcuni potrebbe essere il coniglio che esce dal cilindro per permettere una fine del conflitto ed evitare a Netanyahu di doversi rimangiare quello che sta dicendo. È comunque una via molto stretta, perché il governo israeliano ha al suo interno partiti come quelli guidati da Smotrich e Ben Gvir che hanno detto chiaramente che questa per loro è l’occasione non solo per eliminare Hamas, ma per ridurre la presenza palestinese a Gaza e in Cisgiordania.

Se le parti dovessero firmare un accordo per liberazione degli ostaggi con la fine dei combattimenti e la rinuncia a Gaza cadrebbe il governo Netanyahu? Smotrich e Ben Gvir lascerebbero l’esecutivo?

Ci sono due variabili che influenzano le trattative: la prima è la decisione di Biden di appoggiare di fatto l’intervento della polizia nei campi universitari. Non ne ha preso le distanze per mantenere le mani libere all’amministrazione americana, sia in caso di accordo che di intervento a Rafah. Sta indirizzando la politica americana su un percorso che abbiamo già visto negli anni 60, prima del tracollo di un altro presidente democratico (Johnson) alle prese con il conflitto vietnamita. Un terreno pericolosissimo per la rielezione di Biden.

Di cos’altro bisogna tenere conto?

Il secondo elemento è che sono emersi motivi che possono portare il Tribunale internazionale contro i crimini di guerra a emettere ordinanze anche nei confronti di esponenti militari e politici israeliani. Gli attacchi contro il Tribunale dimostrano l’irritazione e la preoccupazione americana e israeliana contro mandati che riguarderanno fatti specifici. Il margine di manovra della destra israeliana è condizionato da questi due elementi. Non è affatto detto che il crollo del governo Netanyahu sia automatico in caso di una cessazione del conflitto.

Hamas in quel caso sopravvivrebbe. Israele può accettarlo?

Hamas sopravvivrebbe, ma è emersa un’ipotesi di smilitarizzazione: la componente politica avrebbe il totale controllo dell’organizzazione e la parte militare, almeno nei suoi vertici, verrebbe chiusa, non sarebbe più titolata a decidere la strategia come oggi fa insieme all’ala politica. Un percorso già accaduto con altri movimenti rivoluzionari e terroristici, con l’IRA e poi anche in Africa. Tutto ciò, vale a dire la smilitarizzazione di Hamas, è stato ipotizzato da alcuni leader dell’ala politica.

(Paolo Rossetti)

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