Puntano a replicare l’esperienza di consumo di birra, vino e superalcolici, stuzzicando il palato di chi non può o non vuole bere la versione alcolica “classica”. E rappresentano un comparto dalle buone potenzialità di crescita anche in un mercato tradizionalista come quello italiano. Parliamo delle bevande a basso o nullo contenuto alcolico, messe sotto la lente da uno studio condotto da Areté per la DG Agri della Commissione Ue.
La survey rileva come la parte del leone di questo segmento – che complessivamente vale 7,5 miliardi di euro per una produzione pari a circa 2,5 miliardi di litri -, sia recitata dalle birre, ma segnala anche un’interessante dinamicità di altre due categorie, che pure restano di nicchia, ma presentano buoni fondamentali per mirare a intercettare nuove platee di consumatori: la prima è la parte “vino”, che si attesta a 322 milioni di euro, la seconda quella degli alcoli (distillati e liquori senza alcol) che sviluppa circa 168 milioni di euro. Ma va detto che questi dati rappresentano una media comunitaria: lo stesso studio di Aretè evidenzia, infatti, che alcuni Paesi già corrono di più. È il caso della Francia, dove il vino a basso tenore di alcol ha raggiunto nel 2021 un valore di mercato stimato a 166 milioni di euro, e del Regno Unito, primo mercato per le alternative “low/no alcohol” ai superalcolici, con vendite per 98 milioni di euro.
E l’Italia? Nel nostro Paese – fanno sapere gli esperti di Aretè – il mercato delle alternative low/no alcohol sta muovendo i primi passi e pare meno sviluppato rispetto ad altri Paesi, in cui è già piuttosto comune trovare vini dealcolizzati o alternative analcoliche al gin tra gli scaffali dei supermercati. Lo studio stima in circa 8 milioni di euro il mercato italiano delle bevande “low/no” alternative ai superalcolici nel 2021 (lo 0,1% del totale della categoria), a fronte dei 78 milioni di euro del mercato francese. Cifre ancora più ridotte per i vini aromatizzati, rappresentati principalmente dalle alternative al Vermouth, con vendite stimate in meno di un milione di euro. Se la cava un po’ meglio il vino (parzialmente) dealcolizzato, con un mercato nazionale stimato di circa 30 milioni di euro, nettamente in rincorsa rispetto a Parigi (166 milioni) e Berlino (69 milioni).
I dati Euromonitor International analizzati da Areté per lo studio fanno però intravedere previsioni di forte crescita nei prossimi anni (+23% di tasso di crescita medio annuo 2021-2026 per i superalcolici “low/no”), in linea con le aspettative di molti operatori, che vedono in questo mercato un grande potenziale per raggiungere nuove categorie di consumatori – si pensi ad esempio a chi non beve alcolici per motivi religiosi – e allinearsi a trend di consumo ormai consolidati, quali la preferenza per prodotti più salutari.
Le risposte già fornite dai consumatori sono del resto incoraggianti. Sempre lo studio di Aretè, che ha svolto una indagine ad hoc effettuata su oltre 5.500 rispondenti in 15 Paesi Ue, la birra analcolica o a bassa gradazione è ormai familiare alla maggior parte dei consumatori. Qualche resistenza in più si incontra nel caso delle versioni “low/no alcohol” di altri alcolici quali il vino o i distillati: qui lo scetticismo era prevalente fino a poco tempo fa, anche a causa della bassa qualità percepita di queste bevande. Questa iniziale diffidenza pare però aver stimolato gli investimenti da parte dei produttori verso un miglioramento della qualità organolettica tramite lo sviluppo di nuove tecniche produttive dirette ad aumentare la somiglianza di queste bevande alle controparti alcoliche. E così oggi il 59% dei consumatori dell’Ue dichiara un atteggiamento generalmente positivo, di curiosità, nei confronti di queste bevande in quasi tutti i principali mercati dell’Unione, mentre solo il 6% ha riferito una reazione negativa. E va detto che in prospettiva le stime potrebbero migliorare dal momento che gli under 35, più attenti a stili di vita sani, appaiono generalmente più inclini a provare prodotti nuovi – per esempio versioni “low/no” dei distillati o dei vini aromatizzati – discostandosi dalla tradizione.
Sulla strada di questi prodotti c’è però, al momento, un convitato di pietra: la normativa. A oggi – spiegano gli esperti di Aretè – non esiste una definizione legale di “bevanda alcolica” nella legislazione alimentare dell’Ue e il quadro normativo per i prodotti di questa categoria può variare in modo significativo da un Paese all’altro e tra prodotti diversi, così come la possibilità di commercializzare versioni alcohol free o a ridotta gradazione alcolica. Queste differenze diventano particolarmente evidenti soprattutto in tema di etichettatura e di denominazioni di vendita autorizzate: mentre la possibilità di produrre (e commercializzare come tali) vini dealcolizzati è stata introdotta dalla più recente riforma PAC del 2021, attualmente è vietato etichettare come gin, vodka o whiskey bevande che ne imitano il sapore, ma che hanno un tenore alcolico ridotto. Sarà dunque necessario – è la conclusione dello studio – lavorare sul nodo dell’etichettatura per garantire maggior chiarezza a consumatori e operatori, senza trascurare le istanze di chi vuole tutelare le produzioni tradizionali di bevande alcoliche, per le quali l’Europa è celebre in tutto il mondo. Questo promette di essere lo snodo centrale della discussione.
Su questo tema l’Unione Europea può avere diversi strumenti di intervento, ad esempio fornendo regole comuni per l’uso di locuzioni quali “analcolico” o “a bassa gradazione” nella comunicazione di prodotto e cercando (assieme ai diversi portatori di interessi) soluzioni efficaci per descrivere queste bevande.
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