Ieri mattina alle 5.10, come quasi tutti gli italiani, dormivo. Qualcuno invece usciva dalla Stazione Centrale di Milano con il primo Frecciarossa per Roma: e poi via, fino a Salerno. Per caso, a motivo dell’ora, il treno era quasi vuoto. Un passeggero sulla prima carrozza, due nella seconda e uno nella terza: una fortuna, visto che di lì a pochi minuti all’altezza di Lodi il treno lanciato a 300 km/h sarebbe letteralmente “volato” fuori dalla sua sede. La tragedia, che per i 31 feriti sarà ricordata solo per una gamba rotta, qualche ammaccatura e un enorme spavento, è costata la vita ai due macchinisti.
Loro si erano alzati molto prima delle 5.00, perché far decollare un Frecciarossa richiede le procedure di un’astronave, non dei treni di una volta.
Mentre tutta l’Italia dormiva, Giuseppe Cicciù, di 51 anni, di Reggio Calabria, e Mario Di Cuonzo, di 59, di Capua, cominciavano a lavorare. Il primo era un immigrato legatissimo alla sua città e alla mamma, che andava a trovare appena poteva; Mario Di Cuonzo, d’altra parte, era un Ferroviere con la “F” maiuscola, una grande professionista appassionato del suo lavoro, che aveva fatto parte della prima squadra reclutata per guidare i Frecciarossa: abitava a Pioltello, alle porte di Milano, dove due anni fa, lo ricorderemo, era deragliato un treno regionale provocando tre morti.
Uomini comuni che erano persone per bene. Lavoratori onesti, padri e mariti sensibili che ci parlano dell’Italia che non urla, quella delle tradizioni, degli affetti, della migrazione dal Sud al Nord del paese. Del lavoro d’altri tempi. Quella che, invisibile, va su e giù per la nostra patria.
Cicciù era fiero di essere macchinista. Lo dice il suo profilo Facebook dove appare in diverse foto con la divisa, si spende contro la violenza sulle donne e partecipa ad una campagna contro i tumori all’insegna dello slogan: “la prevenzione è da sempre l’arma migliore!”.
Tra i feriti, qualcuno ha pregato e si è aggrappato a chi gli stava accanto. Era con un amico, e al momento dell’impatto, racconta, “ci siamo stretti forte la mano per evitare di cadere. Il vagone si è ribaltato e noi, in attesa dei soccorsi, siamo usciti attraverso un buco per metterci in salvo. Per un quarto d’ora, purtroppo, siamo rimasti bloccati a bordo. Credevo di essere morto. Sono musulmano, ho chiuso gli occhi e ho pregato”.
Mentre io dormivo, la tragedia avveniva. Due macchinisti morivano e trentuno persone rimanevano ferite. Io mi svegliavo, pregavo, dicevo Messa e, all’ora di colazione, lo smartphone mi raccontava che un Frecciarossa si era davvero trasformato in un’astronave senza le ali.
Quante volte ho preso quel treno volando a 300 all’ora dalle parti di Lodi? E quante volte avevo sentito il brivido di non essere poi così diverso da Icaro che va con le sue ali di cera troppo vicino al sole?
Poi leggo di quel ragazzo musulmano. Un amico a cui stringersi forte e una preghiera. Perché è così difficile ricordarsene quando le tragedie non ci sono, quando ci sarebbe solo da guardarsi negli occhi e riconoscere l’umano che c’è negli altri e il divino che è sopra di noi?