C’era una volta il cinema d’animazione che faceva nascere giocattoli e oggetti di merchandising dai film (tutto pare cominciò con Guerre stellari). Oggi il cinema d’animazione nasce da giocattoli già esistenti, in parte concepiti per dare loro una dimensione audiovisiva e narrativa: è il caso, tra i vari, dei Trolls, franchise di film e serie tv nato dalle bambole create tra i ’50 e i ’60 da Thomas Dam.



In questi giorni esce direttamente sulle piattaforme on demand il secondo film ispirato ai coloratissimi pupazzetti, Trolls World Tour, seguito del film del 2016 e ribadisce la caratteristica di questa evoluzione del marchio: la musica. Infatti, la regina Poppy e il suo amico Branch scoprono che il loro mondo è solo uno dei vari regni troll ispirati a diversi generi musicali (il pop nel loro caso); ma soprattutto scopriranno che il regno dell’hard rock è deciso a riunificare gli altri regni per suonare solo la loro musica, con le buone o con le cattive.



Tralasciando il discutibile presupposto per cui il rock sia il cattivo della musica con stereotipi annessi, quella diretta da Walt Dohrn e David P. Smith e scritta da Jonathan Aibel e Glenn Berger è una confezione pronta per i negozi di giocattoli e per gli store di musica digitale che solo incidentalmente ha assunto la forma di un film.

Chi scrive non è così ingenuo da pensare che il cinema sia scevro dal marketing, specie i cartoni animati commerciali, ma qui l’operazione è talmente scoperta e sfacciata da meritarsi un certo fastidio. Innanzitutto, raduna tutti i luoghi comuni possibili sulla musica e sui suoi fruitori ed esecutori – dal pop frivolo al country dei bifolchi passando per il funky sensuale e la classica seriosa (arrivando al rock dei cattivoni spaccatutto) – mettendo però al centro del mondo il pop, ovvero il genere più venduto e quello più facile da vendere; non si cura mai di strutturare la musica attorno al racconto o viceversa ma scambia le pretese di musical per una playlist iperattiva in cui la musica semplicemente sparisce. E la morale educativa è di un paternalismo che sembra rigettare la capacità comunicativa del cinema animato indietro di molti, molti anni, soprattutto perché subordina la sensatezza del messaggio alla logica del successo, della popolarità.



Si potrà obiettare che queste critiche siano “sofismi” da adulti, per chi accompagna i più piccoli nella visione. Forse è vero, e di sicuro è difficile che un bimbo si annoi di fronte a un bombardamento di suoni e colori fluo usciti da un negozio alla moda, studiato per attrarre lo sguardo; è però paradossale che un film basato su musica e ballo sia così privo di ritmo, così povero di avventura, così parco di idee e trovate che non siano dei brevi squarci “lisergici” sempre ad altezza di bimbo. Così spento, discontinuo e melenso.

D’altronde la matrice del film è inscritta nei suoi geni, nelle sue origini mercantili e nel suo veicolo per risollevare le vendite di un marchio. D’accordo, ne prendiamo atto e non è quello che ci fa arrabbiare come spettatori consapevoli, ma che si usino i bimbi per un’operazione così cinica e soprattutto così priva di divertimento.