True Mothers, come molti dei film di Naomi Kawase, segna fin da subito la linea di demarcazione tra chi entra e chi esce, chi sta al gioco e chi lo rifiuta: il suono di un parto con le immagini del mare e della natura e musica pianistica in sottofondo. Un’idea di simbolismo lirico che riveste una storia ispirata a un romanzo di Mizuki Tsujimura.



Il film racconta di due madri, una che dopo molti tentativi infruttuosi di avere un figlio naturale, adotta un bambino, l’altra che è costretta a lasciare il figlioletto appena nato perché troppo giovane per accudirlo. Ovviamente le due vicende sono legate tra di loro e quando vengono in contatto il dramma rischia di esplodere.



Il cinema di Kawase però non è un cinema esplosivo, non ha una visione realmente melodrammatica del racconto e quindi True Mothers – scritto da Kawase con Izumi Takahashi – sceglie una strada più calma, quieta nei modi, ma frammentata nella forma, in un racconto che sceglie la via degli incastri e dei flashback.

Al fondo c’è una questione ancestrale che spesso si dà per scontata: cos’è un madre, colei che genera un bambino o colei che lo cresce e ama? Domanda retorica e scontata che però il film arricchisce di altre sfumature, per esempio sui diritti dei genitori dopo che hanno abbandonato i figli e sull’influenza psicologica che un figlio, la sua ricerca o mancanza possono dare.



Kawase, come detto, sceglie un tono rilassato nel racconto e anche se ogni scelta, azione e sentimento appaiono fin troppo compresi e amplificati nelle reazioni dei personaggi – almeno per il punto di vista occidentale – il modo di armonizzarli con le immagini sceglie una via serena che porta a una certa intimità con i personaggi; poi però, per via della complicata e non indispensabile struttura narrativa, i toni si spezzano.

All’improvviso, nel segmento in cui le due storie si toccano per la prima volta, sembra un brutto documentario semi-amatoriale, in cui si affrontano temi anche complessi con superficialità, poi vira sempre più verso un registro patetico che non si adatta al tocco della regista e che sfalda il racconto in un andamento estenuante, in un sentimentalismo lezioso, in cui non sembra credere sul serio, tra controluce e facilonerie estetiche.

True Mothers spreca così il potenziale per un bellissimo mélo, seguendo strade opposte che non si amalgamano, facendosi sfuggire spesso il perno del discorso. Mi permetto allora di consigliare due film che invece quel potenziale lo portano a compimento: Thy Womb di Brillante Mendoza, sul rapporto natura e gravidanza, e In mani sicure di Jeanne Henry (a noleggio online), sul senso profondo di un’adozione per chi lascia, per chi adotta, per il bimbo.