Trump ha vinto, nonostante Trump. Un candidato criticato, divisivo, antipatico, ma che alla fine si è trascinato dietro un risultato che è andato ben al di là del pronostico e che – se oltre alla conquista del Senato i Repubblicani confermeranno anche la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti (che è il vero traguardo di queste ore) – sottolineerà l’ipoteca GOP per almeno il prossimo biennio.
È stata anche una larga e clamorosa vittoria popolare visto che Trump ha vinto anche in termini di voti assoluti e nonostante la grande affluenza, a sottolineare la cocente disfatta dei Democratici, ma soprattutto di chi in queste settimane – negli Usa come in Italia – non aveva più o meno volontariamente voluto cogliere i segni dei tempi.
Chi scrive già un mese fa aveva pronosticato la vittoria di Trump quando la Harris era in testa, perché un conto sono i sondaggi e relativi commenti, un altro ascoltare “sul campo” i sentimenti della gente. Americani delusi da entrambi i candidati, ma che hanno considerato Trump “il male minore” per la superficialità e impreparazione dell’avversaria che si cristallizzata su temi che toccavano poco la “pancia” della gente. L’aborto, il femminismo, le questioni di gender saranno demagogicamente importanti, ma molto di più lo è l’aumento dei prezzi al dettaglio e l’insicurezza che troppi americani percepiscono nel proprio quartiere quando si barricano la sera in casa o portano i figli a scuola.
Demagogia, populismo: metteteci quello che volete, ma sta di fatto che è questa la maggioranza americana che – dopo un’esperienza con Biden giudicata fallimentare – ha preferito “l’usato sicuro”.
Stucchevole il dibattito sul presunto filofascismo di Trump (mentre si è minimizzato l’impatto emotivo dell’attentato di luglio contro di lui) che ha raggiunto ossessioni paranoiche, mentre la gente chiedeva (invano) alla Harris di dire una parola chiara sulla politica economica, il controllo dell’immigrazione, il futuro sviluppo energetico, la politica estera. Invece, una volta di più, la solita fiera dell'”intellighenzia” radical-chic che parla a se stessa autoconvincendosi di rappresentare il “popolo” che invece proprio non la pensa come loro.
Molti aspetti della campagna – vista a posteriori – sono poi apparsi veramente assurdi. Il controllo dell’informazione, per esempio, che la gente ha percepito come ossessivo e non trasparente. Una levata di scudi e polemiche per i finanziamenti di Musk a Trump, ma dietro la Harris c’erano i gruppi finanziari più potenti degli Usa, ma di cui si parlava pochissimo.
Quale trasparenza d’altronde se quasi tutti i grandi media americani sono in mano a un solo fondo di investimento vicino ai Democratici? Anche perché alla prova dei fatti, come sapevano tutte le persone di buonsenso, gli endorsement delle star, delle cantanti, degli attori servono poco o nulla, così come gli interminabili monologhi anti-Trump sulla CNN, mentre la Harris trasformava il voto anche in una sorta di pericoloso scontro razziale.
La vittoria di Trump dovrebbe aprire gli occhi anche agli italiani chiedendoci come mai in Italia, alla domanda “per chi votereste?” la grande maggioranza aveva risposto “Harris”. Come mai questo voto “italiano” così diverso da quello reale? Proprio perché l’informazione italiana si è dimostrata per l’ennesima volta partigiana, preconcetta e di parte senza mai avere il coraggio – salvo pochissime eccezioni, e va sottolineata la voce fuori dal coro di Federico Rampini del Corriere – di sottolineare le evidenti carenze di una Harris partita in ritardo, ma comunque deludente salvo che nel confronto diretto con Trump, dove però “giocava in casa”.
Pochi media italiani si sono resi poi conto che si stava votando “per la vice del vice di Obama”, una sorta di dinastia politica democratica che in Italia viene santificata, ma che in America era già stata bocciata nel 2016 diventando insopportabile per molti visti tutti gli intrallazzi che ci stavano dietro.
Servirebbe una riflessione anche sui media italiani sul perché hanno votato Trump così tanti ispanici, neri e colletti, eppure ancora ieri sera su Rai 1 da Vespa tutti i commentatori presenti ammettevano che – se americani – avrebbero votato Harris. Ma che razza di dibattito equilibrato poteva venirne fuori?
In America non c’è la “par condicio” e servono (troppi) milioni per una alluvione di spot, ma alla fine “il troppo storpia” e i Democratici se ne sono accorti troppo tardi, mentre agli osservatori più attenti non sfuggivano alcuni aspetti sapientemente nascosti.
Per esempio, negli ultimi giorni si è diffusa la notizia che la Harris avrebbe vinto nel repubblicanissimo Stato dello Iowa grazie al voto delle donne. Si è costruito su questa news una grande teoria sul possibile recupero di Kamala (dimostratasi poi una balla clamorosa), ma bastava vedere come il sondaggio fosse su un campione di solo 808 persone (e quindi basato su meno di una decina di “voti virtuali” di differenza) per capirne la sua poca fondatezza ma che alcuni giorni ha riempito comunque i titoli di giornali e TG di mezzo mondo.
Finita la festa ora vedremo Trump alla prova, ma comunque – è una certezza – state tranquilli che dal 21 gennaio, ogni giorno, la Casa Bianca sarà bersagliata dai media del mondo. Vedrete per credere.
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