Trump che sembra prendere il posto di Putin contro Zelensky e il presidente ucraino che accusa l’inquilino della Casa Bianca di vivere nella bolla della disinformazione russa. Al colmo del paradosso, è stato Putin, ieri, ad offrire garanzie a Kiev, affermando che l’Ucraina non sarà esclusa dal tavolo. Non sono tatticismi verbali. Le dichiarazioni di ieri, arrivate da Trump, da Zelensky e dall’Unione Europea, sono l’esito della rapida ridefinizione degli equilibri politici tra Stati Uniti, Russia, governo ucraino ed UE dopo l’incontro di Riyad.
Abbiamo chiesto un commento a Maurizio Boni, generale di Corpo d’armata e opinionista di Analisi Difesa.
Trump ha definito Zelensky “dittatore mai eletto e comico mediocre”. Il suo mandato è scaduto, ma perché una dichiarazione così brutale?
È la stessa franchezza utilizzata a proposito di Zelensky in campagna elettorale, durante la quale Trump aveva definito il presidente ucraino “il miglior piazzista” che avesse mai conosciuto, per la sua capacità di farsi finanziare la guerra dai contribuenti americani. I concetti non sono nuovi.
Quali margini di manovra ha il presidente ucraino?
Sono pochi, per due motivi. Il primo è che il suo mandato elettorale è scaduto. La sua sopravvivenza politica è legata al prosieguo della guerra, di conseguenza la normalizzazione delle relazioni USA-Russia mette in pericolo la sua figura.
E l’alto motivo?
Circolano da tempo voci e indiscrezioni che non sarà Zelensky a gestire l’Ucraina del futuro, o comunque quella immaginata da Russia e Stati Uniti, proprio perché Zelensky è il responsabile politico ultimo del collasso militare, economico e politico del Paese.
Zelensky, dal canto suo, ha replicato a Trump dicendogli di vivere “in una bolla di disinformazione russa”. Da Riyad in poi si rischia di passare da un patto siglato sulla testa dell’Ucraina ad un patto contro l’Ucraina?
Potrebbero essere due aspetti della stessa realtà. Che l’accordo USA-Russia sia avvenuto sulla testa dell’Ucraina non ci sono dubbi, nonostante von der Leyen abbia dichiarato che un accordo del genere non abbia il diritto di esistere. Ma si sta delineando anche la prospettiva di un accordo contro l’Ucraina, innanzitutto dal punto di vista economico.
Si riferisce ai 500 miliardi di dollari in materie prime rare pretesi da Trump come indennizzo degli aiuti americani?
Non solo. Nella delegazione russa è presente Kirill Dmitriev, che dal 2011 amministra il fondo russo per gli investimenti diretti russi. Ha studiato ad Harvard e Stanford ed ha cominciato la sua carriera in Goldman Sachs. Da Riyad in poi si parlerà molto di soldi. Secondo una recente analisi di Forbes, se la Russia dovesse ottenere il controllo completo degli oblast di Donetsk e Luhansk si arricchirebbe di risorse del valore di 7 trilioni di dollari. Una prospettiva che Zelensky ha rifiutato, mettendosi contro Trump. Potrebbe avere ragione Oleksij Arestovyc.
Arestovyc è l’ex capo di gabinetto del Governo Zelensky. Che cosa avrebbe detto?
Arestovyc ha previsto questo scenario: Zelensky contro Trump, interruzione del residuo sostegno americano, collasso militare del fronte, colpo di Stato militare e rovesciamento di Zelensky. Il fatto che sia la stampa ucraina a parlare apertamente di questa prospettiva ci dice che siamo in una fase delicatissima.
“Per far funzionare qualsiasi tipo di pace” ha detto ieri l’Alto rappresentante Ue per la politica estera Kaja Kallas “è necessario che l’Ucraina e l’Europa siano a bordo. Altrimenti non funzionerebbe”.
A Monaco tutti i leader e funzionari europei hanno ripetuto questa narrativa concordata, ma quello che auspicano non è realizzabile, perché il gioco lo decideranno i due giocatori più grandi.
È vero, come ha detto Zelensky, che “gli Stati Uniti stanno aiutando la Russia a uscire dal suo giusto isolamento globale”?
È una dichiarazione che riassume le molte contraddizioni di questa fase. Innanzitutto, i neoconservatori americani hanno concepito la guerra per procura in Ucraina con l’obiettivo di separare definitivamente la Russia dall’Europa e destabilizzarla, ma la loro operazione ha prodotto l’effetto opposto, perché la Russia è seduta al tavolo delle trattative mentre l’amministrazione Biden non c’è più. La svolta a 180 gradi di Trump ha solo accelerato il coinvolgimento di Mosca.
E l’isolamento russo?
Non c’è mai stato. In primo luogo perché la Russia è inserita nei BRICS, e in secondo luogo perché ad aderire alle sanzioni contro Mosca è stato solo il 12 per cento del mondo. Ma c’è un ulteriore paradosso.
Quale sarebbe?
Molti Paesi dell’Occidente hanno fatto affari con la Russia nonostante le sanzioni, comprese le industrie americane ad alta tecnologia, che hanno continuato a fornire alla Russia, tramite Paesi terzi, componenti hi-tech andati nei sistemi d’arma russi.
“Potremmo essere lasciati soli a garantire la sicurezza in Ucraina” ha detto martedì Draghi al Parlamento europeo. Ieri, per tutta risposta, è arrivato il via libera degli ambasciatori UE a nuove sanzioni contro Mosca. Che cosa vogliamo ottenere?
È l’approccio che von der Leyen a Monaco ha definito come la pace da ottenere tramite la forza, quella delle sanzioni. Potendo fare ben poco dal punto di vista militare, l’UE insiste con quest’arma economico-politica, ancora sostenuta da von der Leyen e da altri leader europei.
A fine gennaio la Camera ha approvato il decreto legge che proroga al 31 dicembre 2025 la fornitura di armi a Kiev. Il Governo italiano è in un cul-de-sac?
Direi di no, perché la nostra situazione accomuna tutti i maggiori Paesi europei. Proprio per questo dovrebbe essere un momento comune di verifica.
Ci spieghi meglio.
Dovremmo porci la domanda non tanto su come gestire questa débâcle nel breve termine, ma soprattutto su cosa fare in futuro, noi italiani e l’Europa. C’è bisogno di uno sguardo nel medio-lungo termine. Per intenderci: come saranno gli USA dopo la presidenza Trump? Chiamiamolo “cambio di strategia” o voltafaccia, le decisioni di Trump sulla guerra in Ucraina e le loro ripercussioni ci dicono che all’Europa serve una strategia autonoma.
Da dove si comincia? Dalla creazione di un esercito comune?
È il peggiore punto di partenza possibile. Di questi tempi lo si cita sempre per primo, ma può venire solo per ultimo. Chiediamoci piuttosto: che cosa dovrebbe essere in futuro e come dovrebbe agire un’Europa meno vincolata agli Stati Uniti?
Gli attuali politici di Bruxelles sono in grado di dare una risposta?
Secondo me no, anche perché devono elaborare il lutto di un gigantesco fallimento. Non è detto che ci riescano: sono state investite in armi, finanze e capitale politico enormi risorse ed è difficilissimo tornare indietro.
Se non Bruxelles, Parigi?
I francesi si danno da fare solo per essere loro a dettare i termini dell’Europa che verrà. Ci vorrebbe una cambio totale della classe dirigente europea.
(Federico Ferraù)
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