“Tu scendi dalle stelle, o re del cielo, / e vieni in una grotta al freddo, al gelo…”: non c’è celebrazione liturgica in tempo di Natale, o qualunque altro evento commemorativo della nascita di Cristo, in cui non si finisca con il riascoltare l’arcinota “canzoncina a Gesù Bambino”. Tutti ne conosciamo a memoria i dolcissimi versi inaugurali.
Del testo poetico e della musica su cui viene abitualmente eseguito siamo debitori al napoletano sant’Alfonso Maria de’ Liguori, figura di spicco del primo Settecento religioso italiano. Abbandonata la carriera forense dopo gli studi giuridici della giovinezza, nel 1726, all’età di trent’anni, venne ordinato sacerdote e si lanciò nella nuova vocazione mettendo a frutto i doni della sapiente abilità oratoria, oltre che di una geniale creatività artistica, affinati attraverso il lungo apprendistato negli ambienti dell’alta società da cui proveniva. Divenne un predicatore rinomato. Si consacrò, in particolare, all’impegno missionario nelle aree rurali del nostro Meridione, a contatto con i ceti popolari più bisognosi di cure e sostegni anche sul piano educativo. Per questo scopo diede vita alla congregazione religiosa del Santissimo Redentore (i redentoristi) e più tardi, nel 1762, fu consacrato vescovo di Sant’Agata dei Goti. Lasciata la carica per problemi di salute nel 1775, concluse la sua febbrile esistenza nel 1787, a Nocera dei Pagani.
La scelta di cimentarsi nella stesura di composizioni devote cantabili si inseriva in una tradizione che prendeva le mosse dal repertorio dei laudari francescani del tardo Medioevo, aggiornati e rilanciati dai riformatori cattolici del Cinque-Seicento (in particolare gesuiti e seguaci di san Filippo Neri). Ma per sant’Alfonso l’estro musicale era inscindibile dalle responsabilità di pastore di cui egli si sentiva investito. Per il fatto di averla lui stesso sperimentata nell’itinerario formativo che lo aveva messo in rapporto con l’Oratorio filippino, sant’Alfonso conosceva l’efficacia comunicativa della musica intrecciata alla parola edificante. Sapeva che attraverso il linguaggio toccante delle note si poteva fare breccia anche sui più ostinati refrattari all’ascolto della parola divina. E per tutta la vita si dedicò al compito di sfruttare questa rudimentale propensione alla “multimedialità” per dare forza alla sua opera di insegnamento rivolta alla totalità del corpo sociale. Compose canti per le campagne di predicazione missionaria dei redentoristi. Ne fece pubblicare i testi in appendice alle opere di formazione religiosa sue e di altri maestri della Chiesa del suo tempo. Infine curò l’edizione di libretti che raccoglievano selezioni delle sue “canzoncine divote” o “spirituali”, “in lode della Gran Trinità, di Gesù Cristo, del SS. Sagramento e della Divina Madre: da cantarsi nelle dottrine, nella vita divota, nelle scuole de’ fanciulli e delle fanciulle, nelle campagne, nei monasteri e nei lavori”.
Le prime tracce sicure di questa applicazione tenace all’arte dell’istruire in modo “soave” risalgono quanto meno al 1730. Ma già prima del sacerdozio sant’Alfonso doveva essersi ripetutamente addestrato nell’esercizio della tecnica. Una rassegna delle “canzoncine” che vide la luce del 1758 ne conteneva già ventotto. Più di quaranta ne compaiono nella settima edizione delle Opere spirituali, apparsa a Napoli nel 1769. Altre ancora, sempre attribuite a sant’Alfonso, vennero ad aggiungersi nelle edizioni postume, replicate senza sosta fino alla fine dell’Ottocento e nell’ultimo secolo.
Dal dono della creatività a scopo dichiaratamente “pedagogico” il fondatore dei redentoristi non si staccò mai fino alla conclusione dell’esistenza: “riuscì così eccellente nella musica e nella poesia – ci raccontano le fonti – che anche vecchio metteva in nota e componeva a meraviglia”. Componeva per raggiungere il pubblico più largo ed eterogeneo possibile, aprendosi molto al di là della cerchia delle élite colte e del ceto aristocratico-borghese. Cercava di muovere all’ascolto anche i più umili, coloro che stavano ai margini. Per questo componeva non solo sui registri più dolci e più invitanti della natività, del presepe, della maternità di Maria, dell’infanzia di Cristo, ma anche su quelli drammaticamente dolorosi e pungenti delle sofferenze della passione, del sacrificio del Redentore, della resurrezione che introduce a una vita nuova, in cui la consacrazione del cuore e l’accettazione del volere di Dio potevano diventare la forma di una fede incarnata nella vita concreta di ogni giorno (“Il tuo gusto e non il mio / amo solo in Te, mio Dio”).
E per raggiungere tutti, il colto teologo moralista, esperto di diritto e leggi della Chiesa, non esitava a fare ricorso persino al linguaggio più immediatamente espressivo del dialetto. In questa veste comunicativa totalmente popolarizzata sant’Alfonso scrisse per esempio Ogg’è nata na Nennella (in onore della natività della Madonna), Gesù Cristo peccerillo, o la famosissima Quanno nascette Ninno, che interseca la medesima materia di contenuti su cui si modula l’italiano letterario di Tu scendi dalle stelle.
La prima attestazione di quest’ultima “canzoncina” alfonsiana risale alle operette spirituali stampate a Napoli nel 1755: nessuno poteva prevedere che ne venisse fuori un successo straordinario, prolungatosi sulla durata di oltre due secoli e mezzo. Il cattolico militante dei giorni nostri, nutrito di sociologia e finissima scienza politica, forse fatica a lasciarsi travolgere dalla tenera immedesimazione nella realtà dell’incarnazione di Cristo che il componimento di sant’Alfonso intendeva sollecitare. L’amore per le grandi strategie ideologiche male si concilia con la semplice contemplazione stupefatta della scena paradossale della grotta di Betlemme. Lo scatto su cui l’autore riesce a fare leva non è, infatti, lo sdolcinato balbettio da ninna nanna insulsa. L’affondo è direttamente sulla conciliazione strepitosa degli opposti che, costretti a fondersi nel miracolo della venuta al mondo di Cristo, creano un “eccesso” a cui non dovrebbe essere possibile resistere. L’abbandono a una resa commossa suscita la risposta piena di amore riconoscente del fedele che “guarda” e, guardando, si rimette davanti al prodigio dell’irruzione del divino nello spazio della carne umana da salvare.
Tutto, fin dall’inizio, è giocato sull’esasperazione dei contrasti. Nel “pargoletto” che si vede “tremar” nel freddo giaciglio di “questo fieno”, dove mancano i panni per coprirsi e non arde alcuna fiamma che riscaldi, si cela niente meno che “il Creatore del mondo”. La denudante povertà del suo “patire”, del suo “penar” e del suo “pianger” apparentemente desolati, perfettamente simili a quelli di qualunque neonato, accendono la domanda ansiosa sul perché di tale clamoroso abbassamento: “Quanto ti costò l’avermi amato!”. E allora, come si canta nelle strofe meno note successive alle due di esordio: “Per chi tanto patir?”, da dove ha tratto origine questo anticipo di umiliazione straziante?
“Tu piangi non per duol, ma per amore”, è la risposta del canto, che prosegue: “per vederti da me ingrato / dopo sì grande amor, sì poco amato”. Il “core” del divino Bambino, che non può adagiarsi nel riposo di un sonno totalmente smemorato, “veglia a tutte l’ore”, e già rumina nel pensiero: “A che pensi dimmi Tu? / O Amore immenso, / a morire per te, rispondi, Io penso”.
Di fronte al dono totale di questo amore ferito, disposto al sacrificio senza risparmio fin dal primo vagito nella culla della massima spoliazione, non si può che rimanere sconfitti. Si risveglia l’impulso di aderire con il trepido slancio di chi si sente oggetto di un amore spalancato per noi al di là di ogni merito, che precede ogni calcolo e ogni pretesa di restituzione, e proprio per questa dismisura attrae nel suo centro vitale, da cuore a cuore: “Caro, non pianger più, ch’io t’amo, io t’amo”.