«Una rivoluzione morta, uccisa dal contro-Stato che ha fallito»: con il consueto eloquio saggio e non scontato, l’inviato di guerra Domenico Quirico inquadra la difficile situazione che si è andata a creare in Tunisia dopo il colpo di scena del Premier Hicham Mechici destituito dal Presidente Kais Saied, con tanto di sospensione del Parlamento democratico. È un fluire in queste ore di commenti ed editoriali circa il tradimento della politica tunisina (e internazionale) per quella “Rivoluzione dei Gelsomini” avvenuta nel 2010-2011 a Tunisi e che diede il là alle cosiddette “primavere arabe”: per Quirico però sarebbe troppo scontato e non rispettoso della realtà liquidare il tutto con un semplice «tradire» degli ideali democratici emersi con i primi afflati del 2010 per le strade della Tunisia.



Sulla “Stampa” oggi scrive invece di come in questi 10 anni l’Occidente e gli altri Paesi Arabi hanno “utilizzato” e esagerato le prime flebili realtà democratiche che emergevano in Tunisia, facendosi belli con discorsi e teorie sulle primavere arabe senza però guardare al centro del problema: «la Tunisia che ho da poco visitato con disperazione ho scoperto che era identica a quella attraversata nella primavera di dieci anni fa», scrive l’inviato di guerra. Come essere tornati indietro nel tempo, di nuovo sotto il potenziale “giogo” della tirannia: ma il problema non nasce certo oggi con Saied, è un morbo presente da tempo nel Paese nordafricano come ben spiega Quirico, «una rivoluzione che non sa più far sognare, uccisa da una vana primavera, che ha prodotto uno Stato di fatto fallito e tenuto in piedi artificiosamente dagli elemosinieri internazionali non è forse una rivoluzione morta?».



TUNISIA, IL VELENO E LA SPERANZA

Schietto come sempre e controcorrente, Quirico non ha timore a chiamare «immagine deformata» quella realtà descritta negli ultimi 10 anni da paginate di saggi, editoriali e discorsi internazionali: diritti donne, costituzione, islamisti illuminati, elezioni, tutto ciò per il cronista «serviva per far gli occhi dolci a governanti sciagurati che venivano utili per le solite sgangherate ed efferate collaborazioni antimigranti». Non si salva apparentemente nessuno tanto 10 anni fa quanto oggi nei politici ai vertici della Tunisia, nemmeno Ghannouci definito «infido manovratore che si traveste da ipocrita difensore della democrazia contro il “golpe” presidenziale». Gente che non ha sostenuto la democrazia, ma la contrastata infidamente dall’interno, o anche gli ultimi esponenti populisti che sia pro sia contro Ben Ali non riescono a risollevare un Paese ancora devastato da quello che Quirico descrive come il «veleno della tirannia»: questo veleno di una dittatura sparita nel 2011, «ha cercato di prosciugare anche il cuore della nuova fragile democrazia». Non tutto però è perduto, seguendo l’input offerto dallo spunto di Quirico: «la democrazia nascondeva un vizio, un imperfezione che nessuno ha rimediato: gli uomini che avevano il compito di farne un buon governo quotidiano non erano all’altezza». Ma la speranza risiede proprio in questa imperfezione della natura sociale e umana: 10 anni sono stati “spazzati via”, ma nello stesso modo un nuovo capitolo può sempre affacciarsi anche per la disastrata, ma non perduta, nazione tunisina.

Leggi anche

PIANO MATTEI/ Tra Etiopia e Somalia serve una mediazione che non "aspetta" la Meloni