Con la designazione di Hichem Mechichi a premier incaricato si è aperto un nuovo capitolo delle travagliate vicissitudini politiche della Tunisia post-Primavera araba. Già ministro dell’Interno nel governo del dimissionario Elyes Fakhfakh, Mechichi è stato chiamato dal presidente Kais Saied a ricreare una maggioranza parlamentare a sostegno di un nuovo possibile esecutivo. Un compito questo assai difficile alla luce dell’alto tasso di frammentazione e litigiosità che domina l’attuale organo legislativo e, più in generale, i rapporti tra le istituzioni.



Alle elezioni dell’ottobre 2019, i Fratelli musulmani di Ennahda si sono confermati come forza di maggioranza relativa, ma solo grazie alla cronica mancanza di un fronte laico e moderato unito, in grado di dar vita a un governo senza la compagine fondamentalista, relegandola finalmente all’opposizione. Dell’esecutivo di Fakhfakh, formatosi lo scorso febbraio dopo lunghe trattative, Ennahda era così l’azionista principale, all’interno di una coalizione variegata comprendente partiti rivali ideologicamente e in forte competizione politica sia tra di essi che con il primo ministro.



Ennahda ha cercato immancabilmente d’imporre la propria egemonia, al fine di orientare l’azione del governo secondo gli obiettivi dell’agenda islamista, sotto la guida di Rachid Ghannouchi. Leader di Ennahda, legato a doppio filo alla Turchia di Erdogan e al Qatar, i grandi sponsor dei Fratelli musulmani, Ghannouchi ha chiesto e ottenuto l’incarico di presidente del Parlamento, dal cui scranno non solo ha messo costantemente i bastoni tra le ruote di Fakhfakh, ma ha apertamente sfidato le prerogative del presidente Saied in materia di sicurezza e affari esteri.

La sua elezione a successore di Beji Caid Essebsi è stata possibile anche grazie al supporto di Ennahda, sulla base di un programma con spiccati accenti ultra-conservatori in materia di diritti umani e civili, tanto da lasciar presagire una deriva fondamentalista della Tunisia. Saied, tuttavia, ha dimostrato finora di essere una figura davvero indipendente e impegnata, da Capo dello Stato, ad arginare i Fratelli musulmani nella strumentalizzazione delle istituzioni per finalità e interessi contrari a quelli del paese.



L’ostilità di Ghannouchi verso Fakhfakh era pertanto un riflesso della contrapposizione del primo con il presidente della Repubblica, che sosteneva l’ex premier nel tentativo di marginalizzare i ministri legati a Ennahda dai processi decisionali e di approvare leggi a loro sgradite.

La vendetta di Ghannouchi non si è lasciata però attendere. Fakhfakh è infatti scivolato su un’accusa di conflitto d’interessi per la quale il leader dei Fratelli musulmani ne aveva chiesto a gran voce le dimissioni fino alla minaccia di una mozione di sfiducia, purtroppo sostenuta in Parlamento anche da forze laiche e moderate, intenzionate ad aumentare il proprio peso nell’ambito di un nuovo governo.

Le dimissioni di Fakhfakh sono state inizialmente considerate alla stregua di una vittoria politica di Ghannouchi su Saied, ma la designazione di Mechichi a premier incaricato ci dice invece che l’esito del confronto è ancora da decidere.

Mechichi è un uomo di fiducia del presidente della Repubblica, che lo aveva nominato suo consigliere personale già prima dell’investitura a ministro dell’Interno, il principale responsabile della lotta al terrorismo e alla violenza di tipo politico, fenomeni nei quali Ennahda è in predicato di essere implicata.

In particolare, su Ennahda pesa l’accusa di detenere un apparato segreto macchiatosi dell’uccisione di due oppositori nel 2013, mentre è recente la discussione avvenuta in Parlamento circa l’opportunità di bandire per legge i Fratelli musulmani, una grave umiliazione per Ghannouchi.

Mechichi premier equivale allora a un guanto di sfida lanciato da Saied, che oltretutto colpisce il leader di Ennahda in un momento di sopraggiunta debolezza. Il ruolo giocato nel favorire le dimissioni di Fakhfakh si è infatti trasformato in un boomerang, perché oggi è lo stesso Ghannouchi a rischiare la detronizzazione da presidente del Parlamento, se verrà approvata la mozione di sfiducia avanzata da 73 deputati, capeggiati da Abir Moussi, leader del Partito Costituzionale Libero, promotrice anche dell’iniziativa volta a bandire i Fratelli musulmani.

La mozione, che si riferisce alle sistematiche violazioni dei regolamenti parlamentari commesse da Ghannouchi nell’esercizio delle sue funzioni, verrà discussa in aula nelle prossime settimane e se otterrà almeno 109 voti sarà necessario procedere alla nomina di un nuovo presidente.

D’altro canto, se Mechichi non riuscirà a formare un governo entro un mese dall’assegnazione dell’incarico, Saied sarà obbligato per legge a sciogliere il Parlamento e a indire nuove elezioni politiche. Per evitare l’isolamento, ancor più se Ghannouchi verrà dismesso, Ennahda si è comunque già detta disponibile a prendere parte all’esecutivo guidato da Mechichi con una rappresentanza di propri ministri.

A regnare sovrana in Tunisia è in definitiva solo l’incertezza, che acuisce ulteriormente le già insopportabili condizioni socio-economiche. L’emergenza legata al Covid-19 è risultata finora molto contenuta, ma l’impatto negativo sul settore turistico ha sottratto ulteriore ossigeno a un’economia in condizioni di perenne asfissia.

Al dilagare della disoccupazione e della povertà, corrisponde un’escalation delle migrazioni illegali attraverso il Mediterraneo in direzione dell’Italia. Sono oltre 4mila i tunisini sbarcati a Lampedusa dall’inizio dell’anno e si teme un esodo simile a quello dall’Albania nel 1991. Il governo italiano promette un piano di aiuti per arginare le partenze, ma ciò può voler dire che le autorità tunisine non stanno attuando con il massimo impegno gli accordi di sicurezza siglati in precedenza con Roma. Sulle partenze vengono chiusi entrambi gli occhi come valvola di sfogo per l’instabilità interna?