La situazione per il momento non si sblocca. La Tunisia corre veloce verso la bancarotta e l’Fmi non ha ancora sborsato i fondi che potrebbero venire in soccorso del Paese nordafricano, scongiurando una nuova ondata di flussi migratori destinati alle coste italiane. Più di quella che è già in corso da quando è esplosa la crisi economica. Per questo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è recata a Tunisi a incontrare il presidente tunisino Kais Saied e il primo ministro Najla Bouden Ramadan.
Il Fondo monetario internazionale vuole imporre al Paese condizioni capestro, con costi sociali altissimi, per concedere i finanziamenti. Tanto che anche i sindacati sono contrari a ricevere aiuti a queste condizioni. L’Italia sta cercando di perorare la causa della Tunisia con Fmi e Usa, ma anche con la Ue, perché attivi un pacchetto di fondi e opportunità. Finora, comunque, l’appoggio dell’Europa non è stato gran che. “Occorre un prestito ma senza condizioni che strangolino il Paese” commenta Toni Capuozzo, giornalista e inviato di guerra.
C’è un modo per conciliare le esigenze della Tunisia e quelle del Fondo monetario internazionale?
L’unico modo sarebbe fare un prestito che non strangoli la Tunisia. Le richieste che ha fatto l’Fmi sono esose in termini sociali: la privatizzazione di molte aziende, prezzi bloccati per alcuni generi di prima necessità. Basti pensare che solo la TunisAir, per rispettare i parametri stabiliti, dovrebbe licenziare mille persone. È un prezzo troppo alto.
Si è parlato soprattutto della richiesta di riforme istituzionali, in realtà è soprattutto il costo sociale da pagare che è altissimo?
Non è che puoi vincolare un prestito all’esame del Dna democratico di un Paese. Le incertezze della Tunisia sotto questo punto di vista le conosciamo tutti. Ha un Governo che non è cristallino. Credo però che la parte più pesante e difficilmente accettabile da qualunque esecutivo sia proprio il costo sociale dell’operazione. Anche i sindacati tunisini, che sono potenti, si sono dichiarati totalmente contro: piuttosto niente prestito. La stessa Melloni si era spesa perché il Fmi cedesse un po’ alle richieste tunisine.
Riusciranno a trovare una soluzione?
Non lo so, temo di no. C’è da augurarsi che la trovino, perché un default della Tunisia sarebbe una diga che si rompe per quanto riguarda l’immigrazione. È una democrazia fragile, ma pur sempre una democrazia e come tale andrebbe trattata.
C’è anche un rischio interno di cambiamento di regime o il presidente Saied per ora resterà in sella?
Direi che in questo momento è senza alternative: questa è la sua forza, in realtà. Credo che però Saied, nonostante le sue incertezze, sia in qualche modo un punto fermo per l’Europa, per l’Occidente. Comunque c’è sempre il rischio di una deriva fondamentalista: è presente anche in Tunisia.
Un elemento di cui l’Fmi dovrebbe tenere conto?
Secondo me sì. Invece va su criteri esclusivamente economici.
Un errore commesso già altre volte?
Sì. Ma sono errori che si ripetono in continuazione. Penso all’ultimo in Kosovo: sono stati mandati dei soldati turchi. Una specie di harakiri per la Nato: i serbi vedono i turchi come i nemici di sempre.
L’Italia cosa può fare per sbloccare la situazione tunisina?
Può spiegare al Fondo monetario, in buona sostanza agli Stati Uniti, quanto sia fragile la Tunisia, che cosa rischiamo a non concedere il prestito e a pretendere che a tutto questo si accompagnino delle riforme brutali dal punto di vista economico e sociale.
Ci sono margini di flessibilità?
Come Europa abbiamo pagato Erdogan perché trattenesse l’immigrazione e non vogliamo aiutare in qualche maniera la Tunisia in modo meno sordido? Penso che sia un evidente interesse dell’Europa che il Paese mantenga la sua stabilità.
Adesso cosa dobbiamo aspettarci, quale strada si può percorrere?
Difficile da dire. I segnali che si sta intensificando la migrazione di tunisini ci sono già. Forse non si possono già definire migranti per disperazione, ma sicuramente si tratta di gente che è in cerca di un futuro. Bisogna tenere conto del livello di disoccupazione e del fatto che la Tunisia sia un Paese che paga i costi del terrorismo in termini di calo dell’industria turistica, settore che dava molti posti di lavoro. Insomma, è già una situazione deteriorata. Credo che se la cosa non si risolverà andremo incontro a un quadro ancora più fosco di quello attuale.
C’è un limite temporale oltre al quale non si può andare? O magari lo abbiamo già oltrepassato?
Questo non credo. Non penso che i tempi imposti dall’Fmi siano così stringenti. Però è una situazione che può solo incancrenirsi se è lasciata così come è.
Tergiversare significa che nel frattempo i flussi migratori comunque continuano a crescere?
In questa situazione i flussi continueranno ad aumentare.
L’Italia dal punto di vista economico può contribuire a sostenere la Tunisia?
Già ci sono molte imprese italiane che danno lavoro. Soprattutto nella zona di Hammamet ci sono stabilimenti che lavorano per il mercato tunisino. Non sono industre che hanno traslocato per risparmiare sulla manodopera italiana. Certo, incoraggiare gli imprenditori a investire, anche se la situazione è molto fragile, potrebbe aiutare.
L’Italia è sola in questa opera di mediazione?
Sorprende soprattutto la Francia, in fondo il Paese è un’eredità coloniale francese, la lingua straniera che si parla in Tunisia è ancora il francese. Si è preoccupata a suo tempo della Libia e non si interessa della Tunisia.
E l’Unione Europea in quanto tale?
È in guerra. Ha altro a cui pensare. La Tunisia per il momento non le interessa.
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