Il ministro degli Esteri Di Maio ha scelto un periodo per la visita in Turchia significativo. Il 15 luglio 2016 avveniva quel tentativo di colpo di Stato contro Erdogan che molto doveva segnare la politica del nuovo califfo. Da allora, Erdogan è riuscito a collocarsi al centro di ogni crocevia in un quadrante geopolitico che spazia dall’Europa al Corno d’Africa, dal Bosforo al Golfo della Sirte, dalla steppa asiatica alle coste siriane.



Molto ha da discutere il ministro degli Esteri italiano. Per lo meno tre dossier delicatissimi. La questione libica, gli accessi ai fondali pieni di gas al largo di Cipro (e i relativi accordi con Francia, Grecia, Cipro, Egitto, Israele, Autorità Palestinese), il dossier profughi siriani giocato come arma impropria da Ankara contro l’Ue. E tutto va trattato con sapienza, misura e saggezza, perché accontentare la Turchia vuol dire inimicarsi qualche altro nostro alleato, amico o partner, dagli Stati Uniti a Israele, alla Francia, all’Egitto fino alla Russia. Tanto più che l’Italia non dispone di fortissime monete di scambio, anzi ha un debito di riconoscenza perché si deve ai servizi turchi la liberazione di Silvia Romano, la cooperante rapita da al Shabaab.



Una politica ambiziosa, muscolare quella di Erdogan che avviene mentre il suo paese è attraversato da drammatiche e laceranti crisi, tutte con una comune caratteristica, di essere sempre al limite di rottura violenta della coesione sociale come avvenne negli anni tra il 1976 e il 1980 quando gli “anni di piombo”, gli scontri tra opposti estremisti di destra e sinistra, causarono qualcosa come 5.000 morti. Numero incredibile se confrontato con l’equivalente dramma italiano o tedesco. Turchia paese instabile, dove si assiste ad un’opposizione frontale e senza nessuna volontà di mediazione tra laici e integralisti, ribadita perfino dallo stesso Erdogan arrivato a parlare non a nome dell’intera nazione, ma in rappresentanza della sua parte politica, come fece in occasione dell’anniversario del fallito putch, quando si rivolse non a tutto il paese, ma solo ai suoi sostenitori, ai 50 milioni di turchi che lo appoggiavano, lasciando fuori gli altri 30 milioni della popolazione, cioè gli oppositori visti come nemici interni!



In secondo luogo, la crisi destinata a perdurare con la minoranza curda che ha visto arrestare o allontanare ben 50 dei sindaci curdi in carica dei 65 eletti nelle ultime elezioni. E poi, l’intolleranza verso i cristiani che ha segnato un’ulteriore recrudescenza con atti contro le chiese armene proprio negli ultimi mesi. Tutte contrapposizioni che avvengono quando la Turchia è attraversata da una profonda crisi economica resa ancora più dura dall’emergenza coronavirus. Secondo stime del Fondo monetario internazionale quest’anno la disoccupazione raggiungerà il 17,2%.

Il fatto è che il sogno imperiale della nuova Turchia, teorizzata dall’ex ministero degli Esteri Ahmet Davutoğlu, la ricerca di un allargamento puro e semplice del proprio spazio vitale si muove attraverso tutte le direttrici possibili. Essa passa attraverso la religione sunnita, nella versione della Fratellanza musulmana – da qui il finanziamento della costruzione di moschee e scuole in tutti i paesi musulmani, dalla Somalia alla Bosnia all’Indonesia, alle Filippine. Si nutre del nazionalismo ottomano, con la richiesta di annessione dei territori andati persi dopo la Prima guerra mondiale. Si riflette nella lingua delle popolazioni turcomanne e turcofane sparse nell’Asia centrale fino alla Cina.

E così i motivi di scontro con i vicini aumentano e le alleanze si complicano.

Per decifrare la politica estera turca è necessario quindi utilizzare per lo meno due chiavi di lettura principali che si intrecciano l’una con l’altra. La prima, definiamola per semplicità neo–ottomana. Erdogan persegue una politica revisionista addirittura del Trattato di Losanna del 1923 avvenuto dopo la prima guerra mondiale e firmato dal laicissimo Atatürk. Da qui le rivendicazioni, alcune propagandistiche altre invece reali, dei territori tolti allora dalle potenze dell’Intesa. Da Cipro alle isole dell’Egeo, dalla Siria del Nord al Nord dell’Iraq, dall’Armenia a parte della Georgia e dell’Iran fino a gettare uno sguardo lungo persino sul Maghreb.

La seconda architrave della politica estera turca è rappresentata dalla ricerca dell’egemonia religiosa nel mondo musulmano che passa dalla duplice guerra tra sunniti e sciiti con al centro l’Iran, ed all’interno dello stesso schieramento sunnita, tra panarabismo laico e integralisti religiosi, a loro volta divisi tra gli ultraconservatori wahabiti, tutt’uno con i sauditi, ed i Fratelli musulmani, sorta di internazionale sunnita integralista ma popolare, a metà strada tra partito politico, organizzazione sociale umanitaria e confraternita religiosa che in Turchia si impersonifica nel partito al potere e di cui Erdogan è un pio sostenitore.

Queste coordinate disegnano il quadro di riferimento, la cornice che inquadra l’aggressiva politica estera turca, politica che crea sì molti nemici, ma anche che vede Ankara al centro di tutti i giuochi dell’area.

Ma ecco in breve le linee. Opposizione storica frontale alla Grecia, per la questione di Cipro e adesso sul tema dello sfruttamento dei giacimenti di gas al largo dell’isola di Creta. Guerra ai curdi siriani e per la riconquista, secondo il gergo turco, della siriana Idlib, una volta capoluogo di regione ottomana, e della fascia nord siriana. Rivendicazioni che contrappongono Ankara alla Siria del quasi sciita – in verità alawita – Assad sostenuto dall’Iran degli ayatollah e dalla Russia. Ma la partita siriana è difficile, di mezzo ci sono gli Usa e la Turchia è un paese Nato, con cui d’altronde intrattiene rapporti conflittuali. Un po’ Erdogan ha sostenuto il sunnita Isis, nemico giurato dell’Iran di Assad, degli iracheni, e dei paesi occidentali Usa in testa, un po’ l’ha combattuto. Un po’ alleato di Putin da cui ha comprato i missili antiaereo S–400, e di Assad. Ma di fondo ha riaffermato la sua politica egemonica nell’area rivendicando ampi territori siriani, facendo arrabbiare Damasco e russi. E ha tirato troppo la corda anche con gli americani con l’attacco in Siria all’Ypg, le Unità di Protezione Popolare, milizie a maggioranza curda che hanno combattuto l’Isis, alleate degli Stati Uniti, con il risultato di vedersi stracciare l’accordo con i servizi segreti di Washington.

Insomma dalla partita siriana, la Turchia non è uscita certo vincitrice, anzi! Con milioni di rifugiati siriani in casa, diventati in verità merce di scambio con la comunità internazionale e specialmente con l’Unione Europea, in testa Grecia e Germania che a sua volta se la deve vedere con più di tre milioni di immigrati turchi in maggioranza sostenitori di Erdogan.

E poi c’è lo storico antagonista arabo, interprete dell’islam ancor più integralista e settario alleato della casa regnante, l’Arabia Saudita con cui la Turchia si scontra su tutti i fronti dall’epoca di Lawrence. Contrapposizione che determina per rimbalzo altre alleanze come quella con il Qatar, paese banca a cui attingere per finanziare le proprie imprese, nonché sede di un’importante base militare turca, nemico giurato dell’Arabia e degli altri paesi del Golfo.

Così si arriva all’impegno dall’alto valore politico e simbolico nella guerra civile libica. Nel novembre del 2019, Erdogan si schiera a fianco del governo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite, e sostenuto malamente dall’Italia, sotto assedio delle milizie del generale Haftar appoggiate da Egitto, Arabia, Bahrain, Emirati con dietro Russia e Francia. Impegno importante per molti motivi. Perché così limita l’espansionismo dell’Egitto, nemico dei Fratelli musulmani dalla cacciata di Morsi nel 2013, nonché cardine di quel gruppo di paesi riunito per la spartizione del gas dell’Egeo. Per riaffermare così la propria identità ottomana sulla Libia e sconfiggere i baathisti libici sostenitori di Haftar. Non dobbiamo dimenticarci infatti che la perdita di Tripoli ad opera degli italiani nel 1912 segnò l’inizio della fine tangibile dell’Impero Ottomano.

E poi vi è un’altro fattore, spesso dimenticato: la forte minoranza arabo–turca che vive a Misurata, popolazione bistrattata da Gheddafi che di conseguenza tanta parte ha avuto nella sua cacciata, e che vede in Erdogan un paladino della propria causa. Infine, entrando nella partita libica, Erdogan vuole acquisire un maggiore peso economico, attraverso accordi bilaterali diretti, con quel paese che nei suoi piani dovrebbe diventare il futuro hub per i giacimenti di gas nel Mare Egeo alla faccia di greci, francesi, egiziani, e italiani.

Politica certo aggressiva quella di Ankara, dalle molte incognite, prime tra tutte la tenuta della stessa Turchia, per non parlare dei molti, se non nemici, antagonisti. Ma non certo irrazionale o di breve respiro. Partita che ancora una volta vede l’Italia giocare in affanno, di rimessa.