Il terremoto in Turchia è stato veramente devastante e pone il Paese davanti alla necessità di uno sforzo immane per risollevarsi. Un impegno non da poco, soprattutto considerando che dal punto di vista economico sta vivendo una crisi profonda.
L’emergenza sisma potrebbe incidere anche sulle prossime elezioni presidenziali e parlamentari, che si terranno il 14 maggio. “La risposta che verrà data non solo in questi giorni ma anche nei prossimi mesi sarà importante per Erdogan” sostiene Mauro Indelicato, giornalista de Il Giornale e InsideOver. Le incognite sul suo futuro e su quello dell’intera nazione sono ancora molte.
Le difficoltà nei soccorsi e nella ricostruzione quanto possono influire sulla considerazione di Erdogan e quindi sulle prossime elezioni?
Sappiamo come nella storia i cataclismi più importanti abbiano accelerato o rallentato il corso delle cose, interferendo nelle dinamiche politiche. Erdogan è in corsa per la rielezione, che non è così scontata come negli altri anni perché, nel frattempo, tutte le più importanti città turche sono passate all’opposizione, fin dal 2019, e perché il suo consenso è poco superiore al 50%: non ci sarebbe quindi una scontata rielezione al primo turno. Per lui è una situazione molto rischiosa. Senza tralasciare che le condizioni economiche della Turchia si sono via via degradate negli ultimi anni fino a raggiungere l’83% di inflazione su base annua nel mese di ottobre.
Dopo il sisma sono emerse testimonianze sui soccorsi che parlano di mancanza di organizzazione da parte dello Stato. Un elemento, anche questo, che può pesare?
Può incidere molto, perché si tratta di una tragedia nazionale e dove c’è una tragedia monta sempre l’insofferenza. In un terremoto del genere i soccorsi non potevano essere realmente efficienti, ma il punto è che la gente percepisce uno Stato non così efficiente, quindi l’insofferenza monta e con essa il consenso del governo viene particolarmente eroso. Questo è il rischio per Erdogan, affrontare una campagna elettorale sull’onda dell’insofferenza causata dal terremoto.
Ma prima del sisma quali erano i punti deboli di Erdogan? L’economia soprattutto?
Sì, perché l’inflazione è altissima e c’è stato un rallentamento del Pil, per le conseguenze del coronavirus come della guerra in Ucraina. A questo aggiungiamo che nelle metropoli, Ankara, Smirne e soprattutto Istanbul, Erdogan è già poco popolare e quindi è chiaro che c’è una buona fetta di Paese che questa volta non gli darà il supporto. Se perde consenso anche a causa del sisma si capisce bene che la sua situazione potrebbe seriamente traballare.
Sull’economia poi pesano anche i sussidi introdotti dal Governo e che a lungo andare potrebbe costituire un problema?
Il Paese nei primi dieci anni di era Erdogan ha subito un’impennata grazie agli investimenti stranieri destinati alle opere infrastrutturali. Istanbul è stata ribaltata in questi ultimi vent’anni: nuove linee di metropolitana, nuovi aeroporti, nuove autostrade. L’economia turca ha conosciuto una forte modernizzazione, però adesso sta subendo tutte le conseguenze della situazione internazionale ed Erdogan, per mantenere il consenso degli stati meno abbienti della popolazione, ha elargito non pochi sussidi. Di fatto ha, in qualche modo, creato un sistema di welfare tale da evitare proteste o insofferenze.
Un sistema difficile da sostenere dal punto di vista dello Stato?
Nel lungo termine sì, infatti molti economisti giudicano la Turchia un Paese non molto affidabile, come invece era qualche anno fa. Il sistema creato da Erdogan è fatto per arrivare alla sua rielezione, ma è chiaro che nei prossimi anni la Turchia è chiamata a riforme strutturali se non vuole collassare.
Una nazione in queste condizioni economiche come fa a mantenere le sue ambizioni egemoniche sulla regione e non solo: solo per fare due esempi la Turchia ha un ruolo nella guerra Russia-Ucraina, ma è presente anche in Libia. Come fa a sostenere ancor questi sforzi?
Ci sono due piani. Su quello politico la Turchia ha saputo ritagliarsi i suoi spazi. La guerra in Ucraina ne è la testimonianza: pur essendo nella Nato non si è discostata dalle posizioni dell’alleanza atlantica nella condanna dell’invasione russa, ma al tempo stesso non ha aderito alle sanzioni e ha conservato un canale privilegiato con Putin. E questa operazione l’abbiamo già vista in altri ambiti. Erdogan è stato capace di ritagliare uno spazio per la Turchia, favorito anche dal fatto che l’esercito turco è il secondo più grande nella Nato e che il suo territorio è un punto di passaggio per i gasdotti e una zona molto strategica sotto diversi profili. Tutto questo non è supportato a livello economico, tant’è che l’operazione in Libia non è molto ben vista. La gente si chiede: ‘Stiamo spendendo tanti soldi per Tripoli, ma materialmente cosa ne stiamo guadagnando al di là della gloria di perseguire mire neo ottomane?’.
Si fanno due conti in tasca e qualcosa non torna?
Sì, per questo Erdogan è in difficoltà nelle grandi città, a testimonianza che questo sistema, che funziona a livello politico, a livello economico ha pecche importanti e questo terremoto potrebbe avergli dato il colpo di grazia. Per due motivi: bisogna concentrarsi sui soccorsi e sulla ricostruzione, Erdogan non può per adesso badare ad affari esterni, e poi gli investimenti per la ricostruzione determineranno per forza di cose un riorientamento in chiave interna della propria azione politica. Certamente nel Mediterraneo la Turchia, almeno in questi mesi, sarà molto più assente e bisognerà vedere se questo determinerà sul lungo periodo un ridimensionamento delle mire di Ankara in questa area.
Senza Erdogan come potrebbe cambiare la politica turca, le opposizioni che tipo di orientamento hanno?
A livello interno il Paese potrebbe essere più instabile perché il cartello delle opposizioni è molto eterogeneo: potrebbe esserci un po’ quella che in Italia chiamiamo ingovernabilità. Potremmo assistere alla nascita di un sistema in cui parlamento, presidenza e governo non hanno gli stessi colori oppure hanno maggioranze molto striminzite. In politica estera l’opposizione ha un orientamento più filoccidentale, tanto è vero che i principali partiti di questo schieramento sono radicati nelle grandi città, dove l’opinione pubblica sogna ancora l’integrazione con l’Europa. Ecco, potremmo avere una Turchia che tornerà a bussare di più alle porte dell’Europa, specialmente se le condizioni economiche dovessero continuare a peggiorare.
Una eventuale instabilità potrebbe far tornare in gioco l’esercito?
L’insuccesso del 2016 del colpo di Stato potrebbe scoraggiare anche quei generali più oltranzisti, perché si è visto come il Paese non sia più in grado di digerire un’iniziativa del genere. Sicuramente, però, quando si parla di instabilità in Turchia il ruolo dell’esercito potrebbe tornare importante, quanto meno con una maggiore presenza nella vita politica.
(Paolo Rossetti)
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