È il tutor della nuova Siria, è presente in Libia e in molti Paesi dell’Africa. Le reminiscenze ottomane fanno pensare a una politica estera “imperiale” della Turchia, anche se non nel senso dell’imposizione della sua presenza. L’estensione dell’influenza di Ankara, spiega Valeria Giannotta, direttore scientifico dell’Osservatorio Turchia del CeSPI, è comunque un fatto e ha motivi storici, economici e culturali. Favorendo la caduta di Assad ha agito in funzione anti-curda ma anche anti-iraniana, mostrando interessi comuni con gli americani. Restano da definire i rapporti con Israele, con cui in Siria si fronteggia direttamente. Erdogan, però, non ha mai rotto i rapporti con Netanyahu, soprattutto a livello commerciale: c’è da aspettarsi un accordo tra le parti. In questa sua azione a 360 gradi la Turchia non ha dimenticato la Russia, che l’ha lasciata fare in Siria in vista di un ruolo da mediatore (per Ankara) nelle trattative per il conflitto in Ucraina.
L’influenza sulla Siria, quella in Libia e nel Corno d’Africa, l’attenzione al Centro dell’Asia: la politica estera turca può essere definita imperiale?
Solo nel senso che riprende alcuni aspetti valoriali dell’Impero ottomano, di cui sfrutta il lascito in Africa e Medio Oriente per cercare delle connessioni. Vuole guardare a quelle zone del mondo che storicamente hanno gravitato negli interessi della Turchia, in base a uno spirito di fratellanza e comunanza religiosa. Prima di Erdogan la politica estera del Paese era orientata solo su un asse, verso Occidente, caratterizzata da un certo isolazionismo. Era forte il principio di Ataturk per cui “l’amico di un turco è solo un turco”. Ora non più.
Cosa è cambiato?
Erdogan ha scardinato questo modo di pensare, perché la stessa collocazione della Turchia la porta a dialogare inevitabilmente con i vicini. A un certo punto si è parlato di ottomanesimo imperiale perché si è tornati in quelle zone che erano sotto l’influenza dell’Impero ottomano: Medio Oriente, Africa e Nordafrica. Poco prima del 2010 si è arrivati addirittura a parlare di una fratellanza e di una unione doganale fra Siria, Turchia e Libano. Ankara aveva interessi anche in Asia, ha partecipato, per esempio, alla guerra in Corea. Non si può parlare di imperialismo, però, se con questa definizione si intende dire che la Turchia impone la sua presenza. Estende, invece, la sua influenza sfruttando i vuoti di potere: così è stato in Libia.
Erdogan inizialmente ha puntato molto sull’Africa?
È stata la grande novità della sua politica estera, facendola diventare un dossier cruciale. Nel secondo mandato ha stilato un vero e proprio piano per questo continente, con un approccio anche filantropico, aprendo moltissime scuole. Questo è uno scacchiere fondamentale per Ankara: la Somalia, per esempio, è una sorta di protettorato turco. Per questo ora sta mediando fra la stessa Somalia e l’Etiopia. Con i somali sono stati aperti diversi dossier, per l’esplorazione degli idrocarburi, per la costruzione di un porto.
È presente anche in altre parti dell’Africa?
Sì e si sta facendo portavoce delle istanze del sud del mondo. A Istanbul si è appena tenuto Stratcom, summit sulla comunicazione strategica, e la presenza africana era massiccia: c’erano ministri del Togo, del Ghana. La stessa cosa è successa all’Antalya Diplomacy Forum. La Turchia ha applicato un sistema per cui nelle università turche ci sono tantissimi studenti africani. Uno di questi, somalo, quando è tornato nel suo Paese è diventato ministro.
Il dato più saliente della politica estera di Erdogan, tuttavia, è sicuramente l’influenza che sta esercitando in Siria. Quale strategia segue Ankara in questa area?
La presenza turca in Siria è evidente: il ministro degli Esteri e il capo dell’intelligence sono già stati a Damasco, dove è stata riaperta l’ambasciata turca. L’obiettivo è il contenimento dell’influenza iraniana e soprattutto dei gruppi curdi, che i turchi considerano un’organizzazione terroristica. Si punta a far capitolare questi gruppi.
Perché è importante frenare la presenza iraniana?
Tra i due Paesi c’è sempre stato un rapporto di amore-odio. Ultimamente tutte le testate iraniane hanno preso di mira la Turchia, capiscono che Ankara ha sottratto spazio a Teheran nell’area, emarginando l’Iran. La Turchia è portavoce di un mondo sunnita, ancorata comunque al mondo occidentale, mentre l’Iran è esponente di un islam sciita. Sono i due maggiori competitor regionali, che si confrontano anche sulla base di una connotazione religiosa. Ora Ankara tende ad ergersi ad attore principale facendo forza anche su questo motivo.
Ci sono altri motivi dell’operazione che ha portato alla caduta di Assad?
La questione dei profughi siriani per Erdogan è molto importante, molti negli ultimi dieci giorni sono già rientrati dalla Turchia alla Siria. Non solo, vuole avere a che fare anche con Paesi confinanti che siano amici. È sicuramente il Paese più stabile della regione, però quello che succede ai confini potrebbe avere comunque un effetto dirompente, anche dal punto di vista economico e logistico. L’obiettivo è una Siria stabile, un piano non facile: i progetti di transizione sono sempre molto fragili.
Secondo molti analisti è come se la Siria se la fossero divisa Turchia e Israele. Ora nasceranno problemi tra questi due Paesi?
Israele ora è praticamente al confine. Credo che non arriveranno mai a un conflitto aperto, sono entrambi storicamente baluardi filo-occidentali. Troveranno il loro equilibrio, come hanno sempre fatto, anche se i rapporti tra di loro sono sempre stati ad alti e bassi.
Erdogan ha fatto della questione palestinese un suo cavallo di battaglia, potrebbe essere ancora di più un motivo di attrito serio?
A un certo punto Ankara e Tel Aviv normalizzeranno i rapporti, non si scontreranno per i palestinesi. Ci sono interdipendenze economiche fra Turchia e Israele che devono essere tenute in considerazione. Ho assistito a una contestazione pubblica di Erdogan: viene preso di mira perché non ha interrotto i suoi rapporti commerciali con gli israeliani. Mi aspetto che con Trump si arrivi a un cessate il fuoco a Gaza. Questa manovra in Siria, d’altra parte, va letta nel quadro del nuovo posizionamento americano.
Cosa vuole fare Trump?
Ha dichiarato che la Siria non è affare degli USA e che l’amministrazione Obama e quella di Biden hanno sbagliato a interferire. Se ne andrà dalla Siria, mollando anche i curdi, che finora aveva sostenuto. Anche il contenimento dell’Iran da parte turca è funzionale agli interessi americani.
È troppo dire che i turchi diventano una sorta di longa manus americana nella regione?
Alcuni interessi coincidono. La Turchia deve per forza avere a che fare con gli USA essendo membro NATO. Fra Erdogan e Trump c’è una simpatia reciproca: si fanno sponda a vicenda.
Quale ruolo pensa allora la Turchia per sé stessa?
Si propone come pivot regionale, nella linea del balancing actor, svolgendo quindi un ruolo da mediatore. Tenderà a portare avanti un processo di pace fra palestinesi e israeliani. Il ruolo di Ankara va letto insieme a quello di altri attori dell’area, come il Qatar, che guarda caso riaprirà la sua ambasciata a Damasco.
E la Russia?
Mosca ha lasciato fare in Siria, prendendosi l’impegno di salvare Assad. Ora metterà la Turchia nella posizione di mediare per una possibile fine del conflitto con Kiev, tenendo le parti della Russia. Tutti questi movimenti sono preparatori alle nuove dinamiche che stanno a cuore all’agenda americana.
(Paolo Rossetti)
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