Dopo l’attacco a una chiesa, ora quello al tribunale di Istanbul: la Turchia si trova, per la seconda volta nel giro di pochi giorni, a dover far fronte a un nuovo attentato terroristico. Le forze di polizia hanno ucciso un uomo e una donna che avrebbero agito per conto dell’organizzazione Dhkp-c (sinistra rivoluzionaria) in un blitz nel corso del quale è morta anche un’altra persona. Un altro segnale di tensione in un Paese pieno di contraddizioni, in parte per la sua posizione di cerniera fra Oriente e Occidente, in parte per le politiche opportunistiche del presidente Recep Erdogan, sempre a metà strada tra NATO e Russia, incapace di dare alla nazione una vera democrazia, esercitando, anzi, una forte repressione sulle opposizioni.
La sua è una politica del ricatto, spiega Rony Hamaui, docente di scienze bancarie, finanziarie e assicurative all’Università Cattolica ed esperto di economia e finanza islamica, che a lungo andare non fa che accumulare problemi, di fronte alla quale l’Occidente non fa niente. Il ricatto, ad esempio, è quello messo in atto nei confronti della NATO scambiando una fornitura di F-16 con il voto favorevole all’entrata della Svezia nell’Alleanza Atlantica. La Turchia deve fare i conti con un’inflazione al 65%, vuole attrarre gli investimenti esteri ma non riesce ad ammodernarsi: la nuova governatrice della Banca Centrale turca, che si stava muovendo in questo senso, ha dovuto dimettersi. Nonostante la crisi economica, recita un ruolo da protagonista sulla scena mondiale, ad esempio in Africa. Tra pochi giorni, Erdogan incontrerà Putin. Proprio Ankara ha permesso a Mosca di aggirare le sanzioni occidentali, facendo circolare le merci russe.
Professore, cosa può significare questo nuovo attentato in Turchia?
A volte, nei Paesi che non sono democratici, questo è l’unico modo per manifestare il proprio dissenso dal regime. La situazione della Turchia è complessa. Il Paese è alle prese con un’inflazione molto alta, al 65%, un elemento che crea forti sperequazioni, di cui i ceti più bassi risentono particolarmente. Rimane instabile e governato in maniera opportunista. Cresce ma con grandissime contraddizioni. E nonostante questo è impegnato su più fronti dello scacchiere internazionale. Un Paese diviso in cui l’opposizione non riesce a manifestare il proprio dissenso.
Erdogan, a livello internazionale, tiene rapporti anche con Paesi che, viste le sue alleanze, dovrebbero essergli nemici. A livello interno, ha cambiato diverse volte la politica economica. Questo suo atteggiamento finirà per disorientare il Paese?
Si sperava in una normalizzazione, che in parte c’è stata. Intanto si è appena dimessa la prima governatrice della Banca centrale turca, Hafize Gaye Erkan, una persona di grande buonsenso. La difficoltà di rendere la Turchia un Paese normale è evidente a tutti i livelli, anche a chi è dentro le istituzioni. La governatrice conosce bene i mercati e in questi mesi ha cercato di normalizzare la situazione, ma non c’è riuscita.
Dicono che se ne sia andata dopo essere stata accusata di aver favorito i suoi familiari. È così?
Non credo molto a questa tesi, la verità è che non è riuscita a fare quello che voleva, anche se i tassi di interesse sono aumentati. Il fatto è che la Turchia non è un Paese normale e democratico e quando mancano questi presupposti tutto il resto ne consegue. Si è fatta dare nuovi armamenti dagli Stati Uniti, gli F-16, in cambio del voto favorevole all’entrata della Svezia nella NATO: il ricatto non è un bel modo di fare politica, può pagare nel breve periodo ma a lungo andare la credibilità del Paese resta molto bassa. Tutti vogliono contatti con la Turchia ma nessuno si fida veramente.
Al di là dell’inflazione, a livello economico sono riusciti a far tornare qualche investimento straniero?
Qualche investimento straniero è tornato perché questa nuova governatrice aveva aumentato molto la credibilità economica finanziaria del Paese. Cosa succederà adesso non è chiaro. Certo, le sue dimissioni non sono state accolte bene dai mercati. La lira ha continuato a svalutarsi. Cinque anni fa per una lira turca ci volevano 0,30 centesimi di euro, ora siamo a 0,05. Il valore è diminuito di sei volte. È tantissimo.
Come fa la Turchia, nonostante questa situazione economica, a mantenere una posizione da protagonista a livello mondiale, a essere presente per esempio in Libia e nel resto dell’Africa?
Kant diceva che quando ci sono questi dittatori non è che si preoccupano più di tanto della situazione: i ricchi governanti continuano ad andare a caccia e a fare le loro feste. Guardiamo gli Houthi: lo Yemen è uno dei Paesi più poveri al mondo, ma spreca risorse per sparare missili sulle navi del Mar Rosso per una presunta causa palestinese di cui probabilmente alla gente non interessa niente. L’Iran stesso, con tutti i problemi che ha, perché si deve cacciare in tutti questi guai in Medio Oriente? Anche Erdogan si comporta così: gioca a fare il grande.
Putin dovrebbe essere in Turchia il 12 febbraio per incontrare Erdogan. Per quale motivo? Un appuntamento legato semplicemente alla ricerca dell’accordo sulla commercializzazione del grano ucraino?
Il legame tra i due c’è sempre stato. Hanno interessi comuni. In Turchia sono passati tanti di quei beni che avrebbero dovuto essere sanzionati, che hanno fatto comodo alla Russia e arricchito Ankara. Se l’Occidente se lo potesse permettere, la Turchia sarebbe fuori dalla NATO in cinque minuti. Ma non può farlo. Erdogan ne ha combinate di tutti i colori sia in termini di diritti umani, che di realpolitik o di geopolitica. Il mondo, però, è fatto così. Sono state annunciate esercitazioni navali tra Russia, Cina e Iran, eppure con Pechino facciamo quasi finta di niente, perché non ci possiamo permettere di alzare la voce e aprire un altro fronte. E lo stesso facciamo con la Turchia.
Prima delle elezioni presidenziali sembrava ci fosse una possibilità di scalzare Erdogan. Dopo quel voto è svanita?
Adesso ci saranno anche quelle locali, ma in questi casi servono semplicemente per santificare il presidente. Il livello di repressione, comunque, resta molto alto. Così come in Russia: ci saranno le elezioni anche lì, ma vogliamo chiamarle elezioni?
Il presidente potrebbe avere ancora un ruolo da mediatore in Ucraina o in Medio Oriente?
Se gli farà comodo sì. Alla fine siamo sempre alla politica del ricatto.
(Paolo Rossetti)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI