I continui, pesanti botta e risposta tra Erdogan ed esponenti del governo Netanyahu, la rottura temporanea dei rapporti commerciali: le relazioni fra Turchia e Israele non stanno certo vivendo uno dei loro migliori momenti, anche se, al di là dei toni che si sono alzati, ci sono ancora segnali di contatti fra i due Paesi. Di fatto Ankara, spiega Valeria Giannotta, direttore scientifico dell’Osservatorio Turchia del CeSPI, è ancora uno dei crocevia della diplomazia mediorientale e tiene i rapporti con tutti i Paesi dell’area per riuscire a individuare una soluzione alla guerra che si sta combattendo a Gaza. E se l’obiettivo dei turchi è ufficialmente il cessate il fuoco definitivo o più realisticamente il tentativo di garantire almeno la possibilità di intervento degli operatori umanitari, quello meno dichiarato, ma che si evince anche dalle parole di Erdogan (le ultime: “Netanyahu, il macellaio di Gaza…morirà in prigione”), è di chiudere con il primo ministro israeliano e il suo governo, eventualità che potrebbe essere apprezzata probabilmente da tutte le nazioni della regione e anche in Israele.



E così, anche se per la Turchia Hamas non è un’organizzazione terroristica ma un movimento di resistenza, tanto che avrebbe pianificato l’apertura di una base operativa segreta proprio sul territorio turco, Erdogan rimane un punto di riferimento importante per la diplomazia della zona, sfruttando in particolare i suoi buonissimi rapporti con il Qatar.



I rapporti fra Turchia e Israele hanno sempre conosciuto alti e bassi. Ora siamo in una delle fasi più negative: Erdogan, tra l’altro, ha appena annunciato pubblicamente che negli ospedali del suo Paese vengono curati i militanti di Hamas. Siamo giunti alla rottura totale?

È vero, Erdogan lo ha dichiarato in una conferenza stampa con il primo ministro greco Mitsotakis, la notizia però è stata corretta subito dopo da un funzionario del governo che ha parlato anonimamente: i ricoverati in realtà sono semplicemente palestinesi. Erdogan, apparso molto stanco, aveva appena corretto il premier greco che aveva definito Hamas un’organizzazione terroristica, dichiarando che in realtà si tratta di un movimento di resistenza. Una definizione che sancisce una divisione con l’Occidente. Una delle ultime visite che il presidente turco ha ricevuto, d’altra parte, è stata proprio quella del leader di Hamas Ismail Haniyeh.



Come sta cambiando il livello di esposizione di Erdogan sui temi che riguardano Israele e Gaza?

Nelle ultime settimane si è notata un’escalation dei toni. Prima la condanna di Erdogan contro Netanyahu era solo verbale, ma subito dopo le elezioni municipali, dove la questione palestinese ha giocato un ruolo, il presidente ha  posto l’embargo su trenta prodotti per il commercio con Israele. Dopo l’annuncio dei piani su Rafah, i bombardamenti indiscriminati dell’IDF, gli ostacoli opposti agli operatori umanitari e soprattutto dopo l’incontro con Hamas, Erdogan un paio di settimane fa ha bloccato ogni relazione economica e commerciale con Israele.

Anche i rapporti con gli USA si sono incrinati?

Il 16 maggio avrebbe dovuto esserci la visita di Erdogan da Biden negli Stati Uniti, ma immediatamente dopo l’incontro ad Ankara con Hamas è stata posticipata. La ragione non è chiara: da parte turca si dice che si vuole condannare l’incapacità degli USA di fermare il genocidio dei palestinesi, mentre dall’altra parte, appunto, gli americani non avrebbero visto di buon occhio l’incontro con Hamas.

Ma la Turchia è ancora un punto di riferimento per la diplomazia mediorientale: le viene riconosciuto e gioca un ruolo importante?

La Turchia è teatro di continue visite diplomatiche e contatti telefonici relativi alla guerra a Gaza e alla questione palestinese. Ankara è consapevole di non poter avere lo stesso margine di manovra possibile, invece, per la guerra tra Ucraina e Russia. E infatti chi ci sta mettendo la faccia più della Turchia è sicuramente il Qatar, con il quale i turchi hanno legami molto stretti. Ankara fa della normalizzazione dei rapporti con gli altri Paesi la punta di diamante della sua politica estera, perché sa che i fattori di rischio della regione sono tanti. Lo fa anche per salvaguardare i suoi interessi economici. Il primo che ha cercato di mettere in atto era con Israele, anche se ora i rapporti si sono deteriorati, ma con l’Egitto, per esempio, c’è una importante ripresa di rapporti politici e commerciali. E anche con i Paesi del Golfo.

Con Israele la porta è chiusa?

C’è una sorta di moderazione di Erdogan per quanto riguarda la condanna a Israele, un aspetto che gli è stato rinfacciato soprattutto dall’Iran. Con Israele c’è un’ambiguità di fondo: non per niente nelle ultime ore è uscita la notizia che gli israeliani erano pronti a rimandare in Turchia i diplomatici che avevano ritirato poco dopo ottobre perché non ritenevano il Paese sicuro. Una situazione abbastanza schizofrenica.

Quindi la Turchia ha ancora un margine di manovra?

L’obiettivo è il cessate il fuoco immediato, quanto meno che si facciano lavorare gli operatori umanitari. Nel medio e lungo periodo invece l’obiettivo sono i due Stati, che venga riconosciuta l’indipendenza della Palestina. Il file della mediazione è ancora sul tavolo e la Turchia tiene contatti con tutti: Emirati Arabi, Arabia Saudita, Kuwait, Iran. Ma il fulcro di tutto rimane il Qatar. Anche con Israele alla fine i contatti ci sono ancora: in politica internazionale, se si interrompono i rapporti con qualcuno, interviene subito un nuovo attore. Non credo che Ankara sia disposta a lasciare un un vuoto. La Turchia di oggi, rispetto a quella di un paio di anni fa, che mostrava i muscoli, è molto più conscia della situazione, agisce molto di più a livello diplomatico.

Ma su cosa si sta lavorando per cercare di sbloccare la situazione a Gaza?

Credo che il principale obiettivo, magari non detto, sia che questo governo israeliano si dimetta. Lo si capisce dalle continue uscite contro Netanyahu. Poi si punta a un riconoscimento internazionale della Palestina. L’idea di un allontanamento di Netanyahu potrebbe essere condivisa dai Paesi dell’area, probabilmente anche dagli israeliani stessi. Comunque la mediazione c’è ancora, c’è un attivismo incessante.

Erdogan è ancora disponibile a mediare anche fra Ucraina e Russia?

Il tentativo va avanti, anche se i riflettori sono puntati soprattutto su Israele e Palestina. Pubblicamente non ci sono novità, ma ci si aspetta ancora una visita di Putin, annunciata ma non fissata. Potrebbe essere quello il momento per riprendere il discorso, almeno per quanto riguarda il corridoio del grano ucraino, con un accordo che possa garantire il pieno ripristino di un meccanismo di approvvigionamento, nonostante la guerra.

(Paolo Rossetti)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI