Sette mesi fa – un anno luce – si diceva che il turismo è (era) il petrolio d’Italia. Lo scorso ottobre si contavano già in 360 milioni le notti trascorse dai turisti stranieri in Italia nel 2019: una crescita del 4,4%, per una spesa dei viaggiatori internazionali di 45 miliardi (+6%). Visto che il totale complessivo di vacanzieri in Italia è dato più o meno da una metà indigena e una metà proveniente da oltreconfine (in leggera prevalenza: 50,3%), e visto che la flessione di quest’ultima componente è prevista al -90% (studio World Capital), si fa presto a calcolare la perdita: gli stranieri in Italia quest’anno saranno praticamente solo quelli registrati nei primi due mesi. La perdita economica conseguente s’aggirerà sui 20 miliardi. Un buco non compensabile nemmeno se tutti i vacanzieri italiani scegliessero di rimanere entro i confini patri. Sempre senza considerare che il flusso domestico degli italiani difficilmente resterà uguale a quello dello scorso anno, viste le nuove contingenze economiche, le incertezze e tutta la precarietà che la pandemia si sta portando appresso.
Una voragine annunciata, che anche Thrends, società di consulenza specialista nelle analisi di mercato sul turismo, conferma: i volumi del 2019 saranno almeno dimezzati, se non peggio, per un ritorno ai valori del 1978. E con una conseguente perdita di circa 65 miliardi di euro, 21 derivanti dalla mancata presenza dei turisti stranieri e gli altri da quella dei turisti italiani. L’ultimo bollettino Enit sui pernottamenti internazionali nel 2020 stima che il calo si attesterà al -49%, pari a 31 milioni di visitatori, con pernottamenti internazionali inferiori di 108 milioni rispetto al 2019. E dire che, sempre secondo Enit, il turismo “rappresenta la quarta maggiore categoria di esportazioni dell’Ue e produce effetti positivi per l’economia europea nel suo complesso: per ogni euro di valore aggiunto generato dal turismo si ottiene un effetto indiretto su altre industrie pari a 56 cent supplementari”.
Dunque, una sessantina di miliardi di euro persi dalla filiera turismo a fronte di interventi statali di sostegno calcolati (ma tutti da verificare) per 4. E anche questi distribuiti in una farraginosa sequela di rigagnoli, non strutturati in maniera strategica e organica, ma, come sempre, più o meno a pioggia, nella disarmante abitudine di un mercato sovvenzionato, quello che sembra più adatto ad allargare i consensi.
Il consenso però stavolta non è arrivato quasi da nessuno. Tanto che più o meno gli stessi promotori del Manifesto per il turismo lanciato il mese scorso dalle associazioni di categoria (che di fatto non hanno avuto alcuna risposta) si sono ritrovati insieme per promuovere adesso una protesta via Facebook, con l’eloquente pagina #cosinonriparto.
Cosa vogliono? Quello che predicavano fin dall’inizio, quando le prospettive di tonfo si cominciavano già a delineare in tutta la loro devastante portata: un contributo a fondo perduto per rimpinguare un flusso di cassa evaporato, il prolungamento degli ammortizzatori sociali, il credito d’imposta sugli affitti dei locali. Ora, è vero che buona parte dei più piccoli operatori della ricettività in Italia è proprietaria della sua struttura, ma è anche vero che la separazione gestione/possesso è sempre più la strada segnata per l’industria turistica, che già oggi vede importanti investimenti proprio in imprese gestionali. Sarebbe logico, quindi, pensare anche a loro. E invece nel Decreto Rilancio sono state previste agevolazioni fiscali legate alla figura del gestore solo nel caso coincida con quella del proprietario. Non solo: nella conversione alla Camera del decreto liquidità è spuntato, e poi approvato, un emendamento che consente alle imprese turistiche la rivalutazione dei beni d’impresa senza l’obbligo di pagare la tassa dell’11%. È vero che tutto quello che può aiutare una rivalorizzazione di un business generalmente sottocapitalizzato va bene, ma è anche vero che ancora una volta i vantaggi sono destinati esclusivamente ai proprietari, con viva soddisfazione dell’associazione di categoria che maggiormente li rappresenta.
Intanto, mentre le frontiere restano incerte, quando non chiuse del tutto, mentre invece i corridoi preferenziali tra alcuni Stati, fortemente negati in via ufficiale, sono di fatto già realtà, mentre il ministro degli Esteri promette candidamente di “girare l’Europa per rilanciare il turismo italiano”, e mentre qui la frantumazione delle rappresentanze di settore non aiuta certo al raggiungimento di risultati condivisi, il 14% di Pil legato al turismo sta per diventare ricordo.