Il virus fa paura, però forse spaventa ancora di più la paura, in un loop che si autoalimenta, dove le misure precauzionali vengono percepite come la certificazione di un’epidemia fuori controllo, almeno secondo i parametri della medicina moderna, che prevede un vaccino per ogni virus. Qui di vaccini ancora non ce n’è: si sta lavorando, ma serve tempo, mesi.



Anche tra il 2002 e il 2003 si stava lavorando al vaccino per la Sars (anche quella una sindrome respiratoria acuta grave dovuta a un coronavirus, e anche quella forse portata da un pipistrello), che causò oltre ottomila casi con circa 800 decessi in tutto il mondo (un tasso di mortalità elevato, circa il 9,5%). Ma quella ricerca fu interrotta quando, in estate, i contagi improvvisamente cessarono, probabilmente a causa delle temperature più elevate. I virus, è noto, non amano il caldo, ma è anche vero che quel virus quasi certamente non si è suicidato, ma s’è ritirato da qualche parte: la malattia è stata eradicata, sostengono gli esperti, ma non il virus.



Oggi si contano circa 100mila casi positivi al Covid-19 (che è un altro tipo di coronavirus) nel mondo (2.600 in Italia), con 3.200 decessi (79 in Italia) ma anche con 50mila guarigioni (160 in Italia), per un tasso di mortalità del 3,4%: quindi molti più contagi rispetto alla Sars, ma anche una letalità molto più bassa. Un vaccino, come si diceva, non c’è, quindi si procede come un tempo, con i contenimenti, le nuove quarantene che stanno stravolgendo il nostro vivere e il nostro lavoro.

La minaccia per la salute sta diventando un incubo per l’economia, con la perdita dell’1,3% del Pil per l’area dell’Asia orientale, come ha previsto Standard & Poor’s (ma già è noto che la realtà supererà anche di molto quella cifra). Nello scenario mondiale, dove le stime di crescita per il 2020 erano del 3,2%, si tratta di una flessione non indifferente. Ma in Italia, dove le stime di crescita per il 2020 si fermavano al +0,3%, non servono nuovi algoritmi per azzardare un’imminente fase recessiva.



Inutile, adesso, fingere falsi ottimismi: è il turismo che finirà col pagare il prezzo più alto, quel turismo che da solo viene accreditato quale fautore del 13% del Pil nazionale, lo stesso turismo che è sempre andato avanti senza particolari facilitazioni, spesso guardato con sospetto, e a volte frainteso come possibile bancomat per le casse pubbliche.

Non è dato sapere la ripartizione di quanto verrà stanziato da governi e Unione europea (non fosse tristemente vera, sembrerebbe una barzelletta, ma per ora la Ue ha disposto poco più di 200 milioni di euro…), a fronte di perdite – a tutt’oggi – stimate di circa 2 miliardi di euro con 13 milioni di presenze in meno.

Se il periodo per il ritorno alla normalità post-Sars durò circa 8-10 mesi, oggi si può immaginare un rientro allo status quo ante solo nel 2021. Quante imprese sopravviveranno fino ad allora? E come? Con quali mezzi?

È evidente la necessità di sostegni al reddito, di contrazioni fiscali (già varate) e di accessi facilitati al credito (spesso in passato gli aiuti europei sono andati al rafforzamento dei sistemi bancari, ipotizzando che poi queste risorse venissero tradotte in finanziamenti molto più agevolati agli operatori privati, ma non sempre il meccanismo è andato a buon fine). Sono tutte misure necessarie, ma certamente non sufficienti.

Da oggi in avanti il tavolo di crisi per il turismo, appena varato al Mibact, dovrà affrontare soprattutto la sfida della italian reputation, la ricostruzione di un appeal nazionale basato sui nostri patrimoni artistici, culturali e naturali, ma anche sulla fiducia da riconquistare, sull’immagine di un Paese che nell’emergenza sanitaria non si nasconde e che proprio per questo è più affidabile di altri. Perché come non si può incolpare il termometro per la nostra febbre, non si può davvero ghettizzare l’Italia per un contagio venuto dal Far East.

Il turismo dovrà ancora una volta tentare di resistere, senza cedere alle tentazioni di svendersi abbassando i listini, trasmettendo l’idea di prodotti dal valore incerto. L’Italia deve restare un brand importante: lo sarà ancora di più se saprà superare questa crisi a testa alta.

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