Tra autarchia e globalità si agitano i mercati in cerca di un centro di gravità, se non permanente almeno buono per qualche anno.
L’industria del turismo e dell’ospitalità in Italia è una realtà composita, forte e in espansione, ma sempre in difetto di identità precisa, e di una dimensione competitiva, contemporanea e sostenibile. Una faccenda complicata, che vede i portatori di interesse anche loro incerti tra una connotazione local e un respiro più strutturato: su oltre 30 mila alberghi, in Italia almeno l’80% resta ancora nelle mani di gestioni familiari.
“La dimensione degli hotel, dei gruppi alberghieri, e delle società di gestione alberghiere, è ben inferiore a quella degli altri Paesi europei, in particolare i nostri benchmark storici, Francia, Spagna, Germania, UK” sostiene Raffaello Zanini, fondatore del portale Planethotel.net.
“In Italia mancano i grandi fondi che investono nel turismo e la finanza si tiene alla larga, scoraggiata dalle pastoie burocratiche che bloccano spesso gli investimenti e le strategie dei grandi gruppi internazionali” ha detto Marina Lalli, presidente di Federturismo (come riportato dall’Adn). “Mancano i grandi gruppi – ha continuato -. Finora c’è stata una visione un po’ romantica del turismo italiano, dove ogni luogo aveva una sua differenza, un suo perché; ci differenziava, e quindi fare vacanza da noi diventava sempre un’esperienza unica, non standardizzata come spesso avviene nei grandi luoghi, sempre tutti uguali, che da un lato ti danno la garanzia di sapere dove vai, dall’altra però rendono meno unica la tua esperienza”.
“Adesso questa visione romantica viene un pochino meno, perché per il turismo così come è diventato, cioè globale, bisogna saper intercettare i flussi ovunque. Chiaramente una piccola struttura o un imprenditore singolo, piccolino, fanno più fatica a farsi notare. Questo diventa un problema, e quindi sì: i grandi gruppi ci mancano. Cioè noi oggi non abbiamo una grande presenza di fondi, esistono certo, sono arrivati soprattutto col Covid, quando tante strutture hanno iniziato a essere in crisi e quindi ad ascoltare le proposte dei grandi gruppi.
Però i grandi gruppi sono spaventati dalla burocrazia, che in Italia è molto complicata. Nel momento in cui investo non ho assolutamente capacità di stimare i tempi del ritorno del mio investimento perché so che incontrerò una serie di problemi burocratici, ad esempio sui terreni. Ovviamente un investimento turistico non lo si va a fare nella zona industriale, lo si fa generalmente in posti particolarmente belli, quindi parliamo di valutazione di impatto ambientale, belle arti, di tutta una serie di situazioni che creano problemi”.
La burocrazia, ovviamente, è un problema generale, sia per i grandi gruppi che vorrebbero investire ma tentennano immaginando di finire impastoiati in costose lungaggini (e infatti in Italia solo il 5% degli hotel, pari al 16% delle camere, sono hotel di catena), sia per i piccoli imprenditori, che spesso cedono le armi di fronte a simili complicazioni. La burocrazia si autoalimenta, è autoreferenziale e refrattaria ai correttivi: l’impresa turistica, come anche le altre, deve sapere manovrare di conseguenza, e più gli iter sclerotizzano, più bisogna prevedere e modellare il proprio business sui tempi e modi richiesti.
Gli italiani lo sanno bene, gli stranieri forse ancora no. Ma esiste anche la scuola di pensiero che non vede con troppo favore l’ingresso nel mercato di fondi o gruppi esteri, soprattutto a difesa del patrimonio immobiliare alberghiero nazionale, anche questo un patrimonio connotativo e spesso anche attrattivo.
In realtà, non si può escludere che il modello più consono per affrontare le sfide dell‘hospitality italiana dei prossimi anni sia un mix, ossia nuovi alti standard qualitativi, ma gestiti dalla familiarità di una gestione attenta al valore umano, in grado di produrre quelle esperienze e ricordi “romantici” che diceva Lalli, supportati però dall’efficienza universale di un’organizzazione rinnovata in strutture, personale e servizi.
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