C’è una grande assenza in quest’estate turistica italiana: è quella dei cartelli “cercasi personale”, quelli che almeno fino alla scorsa primavera campeggiavano agli ingressi o sui siti web di bar, ristoranti, hotel, soprattutto nelle zone più vocate alle vacanze da grandi numeri, come ad esempio le coste romagnole. Cos’è successo? Un’improvvisa vocazione che ha spinto centinaia, migliaia di giovani a proporsi per coprire i servizi, quegli stessi giovani che fino a poco prima sembravano ben poco attratti da impieghi considerati gravosi e poco remunerativi? Poco plausibile. Molto più concreta la rinuncia di molte strutture alla ricerca degli addetti necessari, dopo aver adottato nuovi modelli di business che richiedono meno personale, meno impegni e meno spese, promettendo marginalità in grado almeno di colmare i disavanzi dovuti all’inflazione.
Se si eccettua l’esperimento riminese di un hotel senza addetti (una struttura “robotizzata”), i modelli, in sostanza, sono uno solo: l’addio alla pensione completa, la formula che fin dagli anni Sessanta aveva assicurato una sorta di vacanza tutto compreso a prezzi certi e contenuti, il successo proprio della Romagna. Oggi però quella formula non sembra più tanto buona né per i clienti, né per gli albergatori, i primi forse anche contagiati dalle mode straniere (sostanziosi breakfast, pranzi quasi inesistenti, cena dove si vuole), i secondi bisognosi di tagliare il monte-addetti, particolarmente impegnativo per cucina e servizi annessi.
Il fenomeno è già diffuso: a Cattolica, ad esempio, almeno venti hotel si sono già trasformati in bed and breakfast, fornendo solo le colazioni (magari non servite, ma a buffet) convenzionandosi per i pasti con ristoranti delle vicinanze. Ma succede lo stesso anche a Pesaro e in molte altre destinazioni adriatiche. Soluzioni emergenziali? Può darsi, ma se i conti alla fine delle stagioni saranno positivi, è facile ipotizzare una trasformazione a lungo termine.
“Sa come si dice? Che il tovagliolo si mangia il lenzuolo”. È la sintesi che ci propone Massimiliano Schiavon, presidente Federalberghi Veneto. “Ossia il costo del servizio di ristorazione erode la marginalità derivata dal posto letto: se si somma questo deficit alle difficoltà di reperimento del personale è evidente – ci conferma – che in molti ricorrano a soluzioni che altrimenti non avrebbero mai adottato”. Come, appunto, la trasformazione degli hotel in b&b. “È una pratica che si va diffondendo un po’ ovunque. Non ho dati certi, ma immagino che avvenga anche nelle nostre località. Comunque, non è vero che sia il solo modello d’impresa per l’hospitality odierna: possono essercene anche altri, come ad esempio lo scorporo della ristorazione dalla ricettività propriamente detta, dalle camere, insomma”. Una separazione che implica però disponibilità di spazi e investimenti anche considerevoli. “È vero, ma sono investimenti che offrono ritorni. Nel mio hotel, ad esempio, si sceglie la formula b&b, ma è a disposizione il ristorante per la cena, un’attività diversa dall’hotel, un plus, con offerte enogastronomiche di assoluta qualità, in un locale aperto anche alla clientela esterna all’hotel, un flusso che può riempire i momenti di più scarsa occupazione delle camere”.
Puntare su una ristorazione di alta gamma, spesso separata dalla gestione dell’albergo in cui insiste, è un trend già ben collaudato soprattutto nelle grandi città, Roma e Milano in testa. “Ma si sta diffondendo anche nelle destinazioni vacanziere, come Jesolo – continua Schiavon – e a volte capita che sia proprio l’offerta gourmet del ristorante a trainare il successo dell’hotel di riferimento”. Resta in ogni caso il nodo personale. “È vero, anche se focalizzare le specialità richieste dalla sola attività ricettiva da una parte e dal ristorante dall’altra può agevolare il recruiting. La verità è che bisogna comunque puntare alla formazione degli addetti, e che servono sicuramente più competenze in ogni settore per riuscire a garantire l’indispensabile qualità nel servizio”.
Secondo Unioncamere nel quinquennio 2023-2027 commercio e turismo avranno un fabbisogno di oltre 750 mila unità e il 34,3% del fabbisogno occupazionale riguarderà personale con un livello di formazione terziaria (universitaria o professionalizzante) e il 48,1% profili con un livello di formazione secondaria superiore di tipo tecnico-professionale. “Confrontando domanda e offerta di lavoratori con una formazione terziaria – sostiene Unioncamere – emerge nel complesso un’offerta insufficiente a coprire le necessità del sistema economico per 9 mila unità all’anno, con differenze significative tra i diversi ambiti di studio. Considerando nell’insieme gli indirizzi della formazione secondaria di II grado tecnico professionale, si stima che l’attuale offerta formativa complessiva potrebbe riuscire a soddisfare solo il 60% della domanda potenziale nel prossimo quinquennio”.
“Come dicevo – ci ribadisce Schiavon – il problema grosso è la formazione, che può allegare alla provvista di competenze anche un nuovo sentiment per il nostro settore”. Un comparto che, nonostante i numeri non esaltanti genericamente denunciati in questo agosto, in Veneto sta invece tenendo le posizioni. “Ma si potrà dire qualcosa con cognizione di causa solo al termine della stagione, intorno alla metà di settembre, anche se molte strutture, come la mia – dice Schiavon -, proseguiranno ben oltre. Credo di essere nel vero sostenendo che generalizzare è fuorviante: le performaces del turismo in quest’estate segnano tante macchie di leopardo, con diseguaglianze a volte anche sensibili, secondo i territori. Per tutti, però, si può parlare di un evidente ritorno degli stranieri, forse una quota minore di tedeschi ed europei in genere (come gli italiani alle prese con le ristrettezze dovute all’inflazione) ma certamente maggiore per i turisti da oltreoceano”.
Il consuntivo stagionale, dunque, è rimandato a settembre.
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