Il turismo dei tempi moderni, la facilità dei collegamenti, avevano portato a considerare casa ogni angolo del mondo, certi più casa di altri, certi altri più pittoreschi, ma quasi scenografie create ad arte per fornire quel tanto di esotismo in grado di rifornire il nostro catalogo di emozioni, ricordi, esperienze. Oggi l’incanto s’è rotto. Le immagini delle stragi di innocenti in Ucraina o quelle dei cittadini di Shanghai confinati nei loro alveari, che gridano aiuto dalle finestre, murati vivi per arginare una nuova ondata di virus, hanno risvegliato dal torpore, restituendoci alla realtà. Il mondo non ha ovunque denominatori comuni, la globalizzazione s’è fermata ai commerci, e non ha coinvolto i diritti o le libertà. Per chi viaggia, tutto quello che non è comprimibile in una foto ricordo andrebbe studiato, compreso, non condiviso ma osservato con attenzione, oltre che con curiosità.



Il turismo, chiaramente, offre spunti per indagare sull’evoluzione di costumi ed economie. Ma oggi squarcia anche aspetti poco noti, riproponendo il dibattito su turismo di guerra e turismo di pace. Sembra strano, ma al pari degli automobilisti che creano code in autostrada rallentando per spiare e magari fare una foto dell’incidente sull’altra corsia, ci sono agenzie che organizzano tour in zone di guerra, teatri di scontri magari non proprio nelle loro fasi più cruente, ma quasi. Proprio in Ucraina, già nel 2015 alcuni to proponevano (e riempivano) tour nei luoghi della guerra civile tra filo-russi e nazionalisti, fornendo ai partecipanti veicoli blindati, viveri, acqua e giubbotti antiproiettile. C’è (o almeno era operativo fino al 2020, poi non si capisce bene se abbia continuato a lavorare, magari sottotraccia) perfino un War Zone Tours “originale to ad alto rischio”, come recita il claim del sito, specializzato in Iran, Sudan, Somalia. 



Ma al di là degli amanti del brivido, portatori insani di un cinico voyeurismo, il turismo di guerra è costruito prevalentemente su destinazioni che la guerra l’hanno già subita, parecchi anni prima. Ad esempio, sostiene in un interessante saggio Elisa Tizzoni (Università di Pisa) su Diacronie, “in Italia la promozione del turismo di guerra fu affidata soprattutto all’attività dell’Ente nazionale industrie turistiche (ENIT), costituito nel 1919, il quale, con la collaborazione della Compagnia italiana turismo (CIT) e del Touring Club (TCI) nel 1921 celebrò i luoghi legati alla Grande curando una pubblicazione denominata Visite ai Campi di battaglia”. “Dopo il 1945 giunse a piena maturazione l’elaborazione teorica sul turismo come fenomeno umanitario e sociale. Un vero e proprio turismo di guerra comprendente la visita ai luoghi simbolo della Seconda guerra mondiale e, soprattutto, della Resistenza, si è affermato più tardi, a seguito di un lungo e doloroso processo di elaborazione di uno dei periodi più tragici e controversi della storia e successivamente alla nascita, a partire dagli anni Novanta, dei primi complessi museali ed espositivi svincolati da una logica esclusivamente commemorativa e aperti a funzioni didattiche”.



Dal turismo di guerra a quello di pace. Con l’aumentare della distanza dagli anni della guerra, il turismo è andato sempre più diventando un laboratorio per nuove forme di solidarietà internazionale, contribuendo alla rinascita di un sistema di relazioni interstatali pacifico, frutto dell’incontro e della conoscenza tra i popoli. “L’esperienza del conflitto – continua Tizzoni – e il diffuso desiderio di un ritorno ad una pace stabile e duratura che ne seguì, ampliarono obiettivi e aspirazioni delle politiche a sostegno di una migliore fruizione del tempo libero dei lavoratori: non si trattava più di ritemprare fisico e mente del lavoratore aumentando la sua efficienza sul posto di lavoro o offrendo un più attivo e collaborativo sostenitore al regime; la vacanza era entrata nel novero dei bisogni del cittadino, costituendo un’esperienza fondamentale per la sua formazione e la sua coscienza civica”.

In tempi più recenti, il turismo di guerra (almeno quello ufficiale) è mutato, in sintonia con il diffondersi della concezione esperienziale della vacanza, divenendo un turismo di memoria “che considera la visita ai luoghi simbolo delle guerre mondiali e di altri conflitti non solo un viaggio di piacere, ma anche un pellegrinaggio attraverso la storia e le vicende personali delle popolazioni vittime dei combattimenti”.

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