Neve, non neve; caldo, non caldo; sci, non sci. Questi sono i problemi della montagna italiana delle stagioni invernali, sul versante meridionale delle Alpi protetto dalle correnti nordiche, quindi da sempre più suscettibile di rialzi climatici e diminuzione delle precipitazioni. Sono entrati nella tradizione i racconti dei turisti italiani che trent’anni fa lasciavano una val Chiavenna desolatamente brulla per salire tra il pizzo Bernina e il Piz Platta per scendere fino a St. Moritz, fantasticamente sommerso dalla neve. Per dire che il problema, in realtà, non è un problema, un incidente da risolvere, ma una situazione fisiologica (dalle manifestazioni certamente accentuate nel corso del tempo) nella quale bisogna convivere, tenendo sempre ben presenti le necessità sociali dei territori coinvolti.
Partiamo dal meteo
Uno studio dell’Università di Padova e del CNR di Bologna ha dimostrato che negli ultimi vent’anni la media del numero di giorni in cui le Alpi sono state innevate è inferiore di 36 giorni a quella dei precedenti 600 anni. “Dal 1.400 all’inizio del Novecento il numero di giorni dell’anno in cui le Alpi sono state coperte di neve è stato più o meno costante, poi nell’ultimo secolo è via via diminuito. Nel 2023 è mancata in media quasi la metà della neve: rispetto alla media del periodo 2011-2021 la quantità di neve è calata del 45 per cento”. Nel V rapporto AR5 del WGI dell’IPCC di Stoccolma è stato ribadito che l’estensione della copertura nevosa dell’Emisfero Nord è in diminuzione e che nei mesi di marzo e aprile sussiste un’elevata correlazione fra questa diminuzione e l’anomalia delle temperature. Recenti lavori hanno già dimostrato che anche sulle Alpi italiane (6.6-13.7 E e 47.1-44.1 N) l’estensione della copertura nevosa e il cumulo di neve fresca sono in diminuzione specie nei mesi di marzo e aprile e alle quote fra gli 800 e i 1500 m.
Il cambiamento climatico – come sostiene Vincenzo Zulli, docente all’Università Cattolica di Milano, nella ricerca “Il turismo di montagna: sfide e opportunità di un settore in trasformazione” – rappresenta per gli anni a venire plausibilmente la maggiore incognita destinata a riflettersi sul turismo invernale, per le stazioni sciistiche poste alle quote più basse, ma anche per le stazioni in quota che, pur mantenendo un maggiore innevamento, vedranno aumentare l’eventualità dei rischi di valanghe, con possibili effetti dissuasivi su un certo settore di domanda. Le esigenze di sostenibilità del turismo montano comportano, a fronte di una domanda variabile, un considerevole aumento dei costi fissi di esercizio, in particolare per le operazioni di ripristino ambientale raccomandate a livello internazionale dalla Convenzione delle Alpi, quali la rimozione di impianti di risalita fuori esercizio o la rinaturalizzazione delle superfici inutilizzate.
“Ovunque sulle Alpi, entro pochi anni e al di sotto dei 2000 metri, non si potrà più sciare se non generando impatti economici e ambientali insostenibili – sentenzia Luca Rota su “L’Altramontagna” -. Eppure, sulle montagne italiane, alpine e appenniniche, continuano a fioccare non nevicate ma ingenti finanziamenti a favore di progetti di sviluppo dei comprensori turistici”.
I valori
La montagna italiana copre il 35,2% del territorio nazionale (il 41,6% è dato da zone collinari), conta circa 510 mila imprese attive (l’11% sul totale nazionale), e impiega il 15% della forza occupazionale del Paese. Restringendo il campo all’industria del turismo, le previsioni per la stagione 2023-24 di Skipass Panorama Turismo parlano di un generale calo delle marginalità (inflazione, costo energetico, rincaro delle forniture), nonostante un fatturato di 4 miliardi 351 milioni di euro per il sistema hospitality (alberghi, villaggi, B&B, residence, baite, agriturismi, case vacanza, alloggi in affitto), +6,7% sulla stagione precedente, e di poco più di 4 miliardi il fatturato dei servizi (noleggio attrezzature, maestri di sci, skipass ed impianti di risalita vari), +11,1% sulla stagione precedente. Numeri importanti: un “valore strategico – spesso poco percepito e sottovalutato – che l’ambiente montano, nella sua ampia e diversificata articolazione, rappresenta per lo sviluppo socioeconomico e occupazionale del nostro Paese e dell’intera Europa – dice ancora il prof. Zulli -. La montagna è un tipo di territorio dal grande valore naturalistico, ricco di storia e tradizioni oltre che sede di economie in grado di garantire all’Italia una significativa capacità competitiva internazionale, nei settori più disparati, tra i quali spicca il turismo, comparto strategico e di eccellenza per il nostro Paese che, grazie alla rete di connessioni che è in grado di mettere in moto, può a buon diritto essere considerato oggi uno dei principali asset and driver di sviluppo socio-economico, culturale, territoriale, occupazionale e, in tempi più recenti, anche ambientale, di vitale importanza soprattutto nei territori montani”. Ovvio, dunque, che questo asset vada protetto, agevolato, preservato anche con l’impegno pubblico in progetti di sviluppo.
Turismo, sci, spopolamento
“Oggi in tanti scoprono i cambiamenti climatici, noi li conosciamo dalla fine degli anni ’80, perché sulle Alpi hanno avuto un effetto più importante rispetto ad altrove, ma all’epoca nessuno ne parlava – dice Valeria Ghezzi, presidente degli impiantisti Anef -. La montagna oggi è un importante punto di aggregazione e un altrettanto importante polo turistico. La montagna non è solo inverno: abbiamo lavorato molto sull’estate e sull’autunno, da anni abbiamo cominciato a reinventarci proprio a partire dalla destagionalizzazione. È un lavoro che necessita di tempo, ma bisogna imparare a vivere la montagna tutto l’anno. E gli impianti di risalita comunque restano un asset vitale”. Alla pari con i sistemi di innevamento programmato, arrivati a una nuova generazione, più tecnologica, efficiente e sostenibile, in grado di garantire agli sportivi piste aperte anche nel caso di mancate precipitazioni. Tutti fattori importanti, visto che per gli operatori il turismo sia l’industria più importante nei territori montani, e che la stagione invernale valga ancora il 70% dei loro fatturati, anche se la forbice con le stagioni estive stia sensibilmente stringendosi, con l’aumento di presenze e arrivi tra luglio ed agosto, altro fenomeno imputabile al cambiamento climatico, che in estate arroventa le città. Che il turismo sia vitale nelle terre alte è comunque evidente: basta verificare lo spopolamento dei centri trascurati dai flussi.
Non si può quindi che concordare con Zulli, quando ribadisce la necessità di procedere a “un ripensamento del turismo montano, senza timore di mettere in discussione i presupposti che, poco più di un secolo fa, ne avevano generato l’impetuoso sviluppo. A partire da questa revisione critica sarà possibile proporre modelli imprenditoriali innovativi e al tempo stesso fortemente radicati nelle motivazioni originarie dell’attività turistica, che portino in primo piano il ruolo della cultura come elemento essenziale per aumentare la qualità, mantenendo la quantità dei flussi turistici, che non vuole dire solo tentare di attrarre i clienti più facoltosi, ma riuscire ad appassionare comunità di persone che, non tanto consumatori mordi e fuggi quanto curiosi esploratori, tenderanno in misura sempre maggiore a volersi fare abitanti temporanei della montagna, tornando per certi versi agli albori dell’idea di touring”.
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