C’è un paradosso nel modo con cui la discussione sulla cosiddetta “fase 2” (non) affronta il tema del turismo e dell’imprenditoria ricettiva, specie se stagionale come quella caratterizzante gran parte dell’industria turistica delle regioni costiere e montane; un paradosso che, ove non rimosso dal potere pubblico, è destinato a procurare più danni che vantaggi.



Esso concerne la questione della sostenibilità del rischio d’impresa: se da addossare sul solo imprenditore, così da porlo nella drammatica alternativa di riaprire o meno la propria attività, indipendentemente da ogni altra valutazione sulla relativa ricaduta sociale; ovvero, al contrario, se da considerare non già desolatamente individuale, bensì in qualche modo partecipato e condiviso dalla “Repubblica” (Stato, Regioni e Comuni) nel suo insieme.



Si tratta di un paradosso certamente inedito nella storia repubblicana, quantomeno nella configurazione dello sforzo economico e fiscale implicato (anche se, vien da chiedersi: quanto è costato all’Italia della Prima Repubblica lo sviluppo della Fiat e dell’industria automobilistica?). E tuttavia, la rimozione di detto paradosso costituisce un’urgenza ineludibile, solo a considerare le ricadute diversamente inevitabili sull’occupazione e, in definitiva, sull’intera tenuta economica e sociale del Paese sulla relativa coesione.

Sono noti i dati che hanno caratterizzato l’apporto del comparto turistico allo sviluppo nazionale. Solo nel 2018 essi hanno inciso per il 13,2% del Pil nazionale, vale a dire per un valore economico di 232,2 miliardi di euro. Il turismo ha favorito il 14,9% dell’occupazione totale, con oltre 3,5 milioni di occupati, basti pensare alla miriade di attività collegate: dalla ristorazione e dall’enogastronomia alla fruizione del patrimonio storico, culturale, artistico e paesaggistico; dai trasporti alle strutture per il soggiorno e il divertimento dei viaggiatori italiani e stranieri nel paese più bello del mondo, e via dicendo.



E tuttavia, la tenuta del turismo presuppone condizioni di stabilità e certezza al momento inesistenti.

Dal punto di vista oggettivo, essa implica una ri-espansione per nulla scontata della libertà di circolazione nazionale e internazionale. Valga per tutti l’ultimo documento del ministero della Salute del 30 aprile 2020, in ordine alle “attività di monitoraggio del rischio sanitario connesse al passaggio dalla fase 1 alla fase 2A di cui all’allegato 10 del Dpcm 26/4/2020”. Con riguardo alla tendenza ad allentare le precedenti misure di contenimento dell’epidemia a favore di una progressiva ripresa del tessuto economico e sociale, il ministero è stato drastico: “In assenza di un vaccino o di un trattamento farmacologico efficace, e a causa del livello di immunità della popolazione ancora basso, può verificarsi una rapida ripresa di trasmissione sostenuta nella comunità”. Sicché ha condizionato ogni progressivo allentamento del lockdown agli esiti di uno stretto monitoraggio sanitario, subordinando il tutto alla valutazione quotidiana del rischio in corso, da considerare “come la combinazione della probabilità e dell’impatto di una minaccia sanitaria”.

In tal senso non devono stupire i ripetuti e pressanti inviti alla “prudenza”, variamente avanzati dalle autorità sanitarie (Iss), istituzionali (Governo e Presidente della Repubblica), religiose (Sommo Pontefice), europee (Cancelliera tedesca) e sovranazionali (presidente Commissione europea), al fine di considerare in modo ragionevole i pur necessari alleggerimenti delle misure restrittive attualmente vigenti.

Dal punto di vista soggettivo, la tenuta del turismo presuppone una trasformazione per nulla scontata dell’autocoscienza dell’utente. Nel giro di poco tempo egli dovrebbe transitare da una condizione afflittiva di rigorosa reclusione domestica (ben rappresentata dall’ultimo video di Checco Zalone sull’immunità di gregge) e di scarsa produttività economica, a quella opposta di consumatore felice e prospero, pronto ad avventurarsi in ogni dove dei confini nazionali, per trascorrere lietamente e dispendiosamente le proprie agognate vacanze; e ciò, quasi che per lui sia possibile rimuovere in un sol tratto le resistenze derivanti sia dalla consapevolezza delle minori garanzie ospedaliere delle Regioni del Sud, sia dal timore di quella prossima recessione economica preannunciata come la più grave dal dopoguerra.

È in tale contesto, per l’appunto, che si pone il richiamato paradosso della sostenibilità del rischio d’impresa, specialmente con riguardo al turismo stagionale. Nella normalità sanitaria questo è doverosamente valutato e sopportato dall’imprenditore alla luce di condizioni tendenzialmente prevedibili e ponderabili, concernenti la tenuta economica e finanziaria della propria attività. Per contro, nella straordinarietà epidemica in corso detto rischio è destinato a essere valutato e sopportato dal medesimo imprenditore aleatoriamente, alla luce di condizioni del tutto imprevedibili e imponderabili quali sono quelle imposte dall’attuale pandemia. Sicché, paradossalmente, dove massima è l’esigenza di certezza informativa, sanitaria, normativa, fiscale ed economica, massima è invece l’incertezza sulle relative risultanze e sostenibilità.

Perdurando l’attuale paradosso, di conseguenza, l’imprenditore turistico è chiamato ad assumere il proprio rischio in “splendida solitudine”. È tenuto a valutare se sia sostenibile o meno aggiungere alle necessarie spese di riapertura dell’attività (pagamento dei precedenti mutui, aggiornamento impianti, personale, servizi, utenze, approvvigionamenti, materiale pulizie eccetera), quelle imposte dalla normativa dell’emergenza (misure anti-Covid, formazione anti-Covid del personale, sicurezza giornaliera di personale e clientela, e via dicendo); più ancora, è chiamato a considerare la sostenibilità di dette spese a fronte del duplice rischio: sul piano soggettivo, quello di uno scarso movimento turistico per il timore del contagio; sul piano oggettivo, quello di una chiusura coattiva anticipata della sola struttura ricettiva o, peggio ancora, dell’intero territorio di pertinenza.

In senso speculare, vale la drammatica sorte dei dipendenti stagionali. Questi, nella normalità sanitaria degli anni passati, lavoravano tendenzialmente per sei mesi, così da poter godere del conseguente sussidio di disoccupazione per gli ulteriori tre (oscillante fra 700 e 950 euro) e fronteggiare le esigenze annuali del bilancio familiare (mutui casa, rateizzazioni varie, spese utenze eccetera). Per contro, nella straordinarietà epidemica in corso, in caso di mancata riapertura della struttura ricettiva, essi sono destinati a non raggiungere i requisiti minimi per accedere al sussidio di disoccupazione, con la conseguenza di non essere in grado di far fronte a tutte le spese già impegnate per la prossima invernata.

Analogo discorso, a cascata, ovviamente, vale per tutte le ulteriori categorie di lavoratori stagionali. Di qui, la potenziale e illimitata estensione della fascia d’influenza della malavita organizzata (usura, estorsione…), variamente paventata dal ministero degli Interni.

Quale, dunque, la soluzione? Se il rischio d’impresa è straordinario, altrettanto straordinari devono essere i rimedi. Occorre, dunque, rimuovere gli estremi del paradosso rappresentato e supportare l’imprenditore turistico (specie se stagionale) nel proprio rischio d’impresa, così da rendere le relative scelte ragionevoli e sostenibili, quali che esse siano; in senso speculare, occorre supportare la dignità e la professionalità delle maestranze stagionali formatesi negli anni scorsi, così da assicurare ai lavoratori e alle loro famiglie le condizioni per “un’esistenza libera e dignitosa” (articolo 36 della Costituzione).

Il sistema costituzionale non è insensibile all’irrompere delle emergenze. Lo stesso articolo 81 della Costituzione prevede che il principio dell’equilibrio di bilancio sia adeguabile alle condizioni di favore, o di sfavore, delle singole fasi storiche. Per di più, la stessa tenuta dell’attività d’impresa, in quanto portatrice di occupazione, deve essere “favorita” dal potere pubblico alla luce del principio di sussidiarietà, se non proprio di quello di solidarietà che caratterizza l’intero impianto costituzionale.

È questo un compito cui la Repubblica non può sfuggire. E ciò (parafrasando le parole di Benedetto Croce in Assemblea costituente alla vigilia del compromesso costituzionale), a meno di non prepararsi “un pungente e vergognoso rimorso” per l’adozione di soluzioni diversamente orientate ed economicamente disincentivanti.

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