“Un’offerta turistica, per essere il più efficiente possibile, richiede un’azione congiunta e coordinata da parte del settore imprenditoriale, degli attori privati, della società civile e di tutti i livelli amministrativi pertinenti, anche a livello internazionale.
Dovrebbero essere istituiti meccanismi appropriati che consentano ai turisti di essere oggetto di attenzione nel luogo di destinazione e di trasformare il loro viaggio in uno spazio e in un momento di felicità.
Ciò richiede un coordinamento ministeriale e amministrativo, mobilitando tutte le pubbliche amministrazioni interessate a fare del Paese una meta turistica e che i turisti traggano la massima soddisfazione dai loro viaggi, dal soggetto preposto al turismo ai trasporti e servizi turistici, assistenza sanitaria, sicurezza giuridica, ordine pubblico e salute.
Tutti questi ministeri, dipartimenti e agenzie dovrebbero essere coordinati attraverso le commissioni corrispondenti, sotto la diretta supervisione di un funzionario che fa parte della struttura di governo di ciascun Governo. Questo coordinamento deve garantire che tutte le misure promuovano anche il riconoscimento e l’accettazione sociale del turismo in considerazione del contributo che apporta a ciascun Paese”.
Non è una lista dei desideri di un operatore turistico visionario. È il passaggio principale della “Dichiarazione di Tbilisi”, sottoscritta dai 170 ministri e rappresentanti delle amministrazioni nazionali del turismo, invitati dal Consiglio esecutivo dell’Organizzazione mondiale del turismo (UNWTO) alla 120a sessione del Consiglio a Tbilisi (Georgia) lo scorso settembre, per sottolineare “l’impegno alla ripresa di viaggi internazionali sicuri, orientando la rotta verso un futuro più sostenibile e inclusivo”. “Questa crisi è un’opportunità per ripensare il settore del turismo e il suo contributo all’umanità e al pianeta; è un’opportunità per ricostruire meglio un settore turistico più sostenibile, più inclusivo e più resiliente che possa beneficiare ampiamente ed equamente dei benefici del turismo” aveva dichiarato Zurab Pololikashvili, segretario generale dell’UNWTO.
Da Tbilisi a oggi sono trascorsi circa sette mesi, tra lockdown più o meno lunghi ed estesi e un’ondata pandemica che tra alti e bassi di fatto ci continua a tenere ostaggi di una minaccia silenziosa e invisibile (forse per questo a volte anche negata) che però riempie gli ospedali e prolunga dolorosamente la strage generazionale iniziata più di un anno fa. Il coordinamento e la necessità di un’azione concertata richiamati dall’UNWTO si sono tradotti in Italia anche nella creazione di un ministero dedicato e in un’inedita consapevolezza, più volte dichiarata dal Governo, dell’essenzialità per il Paese della salute del comparto turismo.
Pur con tutte le insicurezze che ancora giustificano prudenze e paure, adesso ci si è decisi a rimettere fuori il naso dalla porta, con le riaperture (pur limitate) dei pubblici esercizi e l’indicazione di date precise per le altre attività, anche se tutti sanno che la precisione, con questo tuttora inarrestabile Covid, è un lusso poco consentito. Si tratta di un ritorno alla vita difficilmente ancora prorogabile, sia per il malessere sociale sempre più evidente, sia per il bisogno di tamponare la devastazione economica generata dalle lunghe chiusure, specie per alcuni settori produttivi, tra tutti proprio il turismo, che con la sua lunga filiera vale oltre il 13% del prodotto nazionale.
Sulle frequenze indicate dall’UNWTO è impossibile non essere sintonizzati, tanto evidenti sono gli obiettivi determinati: un restart tourism, come lo chiamano all’Onu, fondato sulla sicurezza sanitaria, il rispetto delle destinazioni, la sostenibilità delle ricerche esperenziali. Perché – si dice – il turismo non dovrà tornare come prima, e cioè troppo concentrato sulle stesse mete, troppo mordi e fuggi, troppo “over”, insomma. Tutto molto bello e giusto. Ma la realtà è che il turismo postpandemico difficilmente potrà tornare come prima, almeno nei prossimi due-tre anni. Perché l’incoming, in Italia, è fondamentale: senza viaggiatori stranieri soprattutto le città d’arte sono destinate a essere ancora cartoline di estrema “rarefazione umana”, con le conseguenti difficoltà per strutture ricettive e di ristoro. Ma si dipenderà da un settore trasporti incredibilmente indebolito, soprattutto l’aviazione.
“La crisi che sta vivendo l’industria aeronautica in seguito alla pandemia di Covid-19 è molto più profonda di quelle che hanno seguito l’11 settembre e la crisi finanziaria mondiale”, sostiene il professore Linus Bauer, consulente dell’industria aeronautica. Tra compagnie fallite e scomparse, tratte cancellate, grandi aeromobili dismessi (abbandonati perfino i giganteschi Airbus A380, colossi per 850 passeggeri), il trasporto aereo resta affidato soprattutto al low cost e ai voli Covid-free, ma sempre con qualche prudenza: British Airways, ad esempio, ha cancellato i voli estivi in tutta Europa e sulle rotte nazionali del Regno Unito, anche in luglio e agosto, basandosi su pessimiste previsioni sanitarie, che ovviamente tutti sperano risulteranno ingiuste.
Per ora, quindi, bisogna prevedere una ben scarsa presenza straniera, e puntare ancora, come la scorsa estate, sul turismo domestico (che pre Covid contava il 50% circa delle presenze totali), che comunque si basa sull’appeal di un’infinità di angoli del Paese che meritano un viaggio, una vacanza, anche una riscoperta. Ma al di là delle altre linee guida Onu, delle concertazioni, delle riaperture a “rischio calcolato”, è ben chiaro a tutti che l’obiettivo, di questi tempi, non può che essere uno solo: il vaccino, l’unico argine a disposizione per evitare che il Covid continui a deteriorare il nostro stile di vita. Un vaccino che, per salvaguardare l’industria del turismo, i viaggiatori e la ripresa generale dell’economia, sono in tanti a chiedere al più presto per gli operatori del comparto, in una priorità evidentemente necessaria, molto più di quelle che hanno già visto in corsia preferenziale altri lavoratori e professionisti, magari in smart working.
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