«Turismo? Oggi parliamo di resilienza, con un accento sulla capacità di trarre energie dalla certezza che torneremo più forti di prima. In realtà, però, il settore ha bisogno di un piano strategico di medio termine, che consenta di fare impresa con modelli nuovi, nuove risorse e nuovi investimenti». Lo sostiene un vero esperto, Antonello De’ Medici, il general manager dell’Hilton Molino Stucky (il gioiello veneziano nato dal restauro dell’antica struttura industriale), vicepresidente di Federturismo Italy, che vanta esperienze quale general manager al St. Regis Venice e area managing director Venice Starwood Hotels Marriott.



Da cosa deriva questo suo convincimento?

Comincio col ricordare che uno dei settori maggiormente impattati dalla pandemia è senza dubbio il turismo, in tutte le sue declinazioni. Le aziende sono in gravi difficoltà, sia per la mancanza di ripartenza della domanda, sia per il verticale crollo dei ricavi conseguenti a una fase di incertezza e di crisi economica senza precedenti. È un comparto che contribuisce per il 13% del Pil e che ha necessità di rivedere e modificare il proprio modello economico e di competitività. I maggiori effetti si vedono sul piano finanziario e del lavoro, ma la parola chiave, nei mesi della crisi, è stata “incertezza”: gli strumenti forniti, da quelli sulla liquidità a quelli sugli ammortizzatori sociali, hanno garantito un supporto nel breve, ma non hanno dato alle imprese quella visione di piano di recupero e di stimolo a superare la fase assistenziale.



Da qui la necessità di un vero piano strategico per il rilancio?

Il punto è che il turismo e l’ospitalità hanno beneficiato di una crescita spontanea e nei volumi grazie ad anni di aumento costanti, che hanno mascherato i limiti strutturali dell’offerta italiana in una competizione sempre più globale. I nostri punti di forza sono l’unicità e la diversità delle delle destinazioni (e i siti Unesco ne sono una prova), la naturale accoglienza verso turisti da tutto il mondo, la capacità di coniugare tradizione e inventiva con un’esplosione di piccole e medie imprese distribuite sul territorio, non solo nelle principali città metropolitane e nelle destinazioni vacanziere tradizionali dalle spiagge alla montagna, ma anche in ogni singolo borgo e destinazione paesaggistica da scoprire.



Dunque cosa occorre per riposizionare l’offerta turistico-ricettiva in Italia? Quali sono le opportunità da cogliere?

Bisogna innanzitutto rivedere la governance del settore, con un solido ministero dedicato, che lavori a stretto contatto con le Regioni per coordinare e stimolare i flussi di risorse e definisca il quadro normativo di riferimento sia sul piano della fiscalità che del costo del lavoro, sulla possibilità di coordinamento degli investimenti sui trasporti e sulla infrastruttura di rete digitale, sulla semplificazione burocratica e sulla defiscalizzazione degli investimenti.

Non è poco…

Vero, ma l’ospitalità ha il potenziale per divenire una vetrina delle eccellenze italiane, una grande possibilità per riprendere il rilancio della enogastronomia legata al territorio iniziata con Expo 2015 e poi sopita negli show culinari in televisione, una passerella per le aziende del fashion e uno spazio espositivo per il design. Si parla tanto di integrazione delle filiere, ma quale settore può essere il paradigma di integrazione se non il turismo? Dal momento della scelta della destinazione, al canale di prenotazione prescelto, sia esso con agenzia, tour operator o web diretto e indiretto, oggi il viaggio non è più un momento di improvvisazione, ma richiede scelte consapevoli con chiari parametri di valutazione.

Un turismo volano per l’intero sistema Paese, insomma.

Il paradosso è che abbiamo pensato di aumentare l’offerta allargando i mercati attraverso i prezzi spinti dalla volatilità della domanda, senza considerare il reale valore: una camera può essere fungibile a parità di categoria e di tipologia di destinazione, una cena può essere scelta su un piano di convenienza, un’esperienza può essere di massa a prezzi scontati. Parliamo di marketing dell’esperienza: dobbiamo allora ripartire, qui sì con resilienza e umiltà, dalla comprensione del valore per ciascun segmento di mercato e ciascuna provenienza di ospiti, ognuno con bisogni e aspettative diverse.

E le località come dovrebbero reinterpretarsi, in questo percorso?

Le destinazioni devono riorganizzare la rete delle aziende, creando prodotti e programmi culturali e di attività coerenti, che ne definiscano il posizionamento sul mercato. Mettere in rete non significa accorpare, ma integrare la filiera, dai servizi di trasporto e logistica, alla ricettività, all’enogastronomia ed artigianato. Ogni destinazione deve cercare di divenire un brand, e ogni struttura della filiera può essere responsabile di innovazione e marketing, di vendita, di produzione di servizi e soprattutto di esperienze memorabili. Quando i turisti divengono clienti e poi i clienti tornano e aumentano la durata dei soggiorni, quando scoprono le destinazioni fuori stagione, alla fine si trasformano in ambasciatori e testimonial.

È una sorta di piano industriale che comporta anche un salto di cultura civica e d’impresa.

Per gestire questo “new normal delle destinazioni” occorre effettivamente un salto qualitativo negli strumenti: innanzitutto un’evoluzione del modello di impresa, con progetti di sviluppo dei prodotti e investimenti nelle strutture. Discutiamo del forte impatto dello sblocco dei cantieri e delle grandi opere, ma quale effetto avrebbe un piano di riconversione delle strutture alberghiere e ricettive in Italia che consentisse di innovare in tecnologia, sostenibilità, design e accessibilità anche per ospiti con disabilità o considerando bisogni diversi per fasce d’età?

I benefici ricadrebbero su una filiera infinita di attività produttive?

Esatto. Nel nostro Paese soffriamo e gioiamo della frammentazione dell’offerta, della mancanza di marchi internazionali diffusi, dell’affidabilità di imprenditori prestati al turismo, spinti dalla diversificazione degli investimenti, e persino del sistema bancario e del credito, che valuta rating sui parametri immobiliari invece che sugli indicatori di performance specifici come RevPar o RevPac, come EBITDA o NOI. La sfida quindi deve passare per lo sviluppo della cultura di impresa nel turismo e nella ospitalità, adottando modelli più elastici e capaci di reagire ai cambiamenti ed alle crisi di mercato più velocemente. Dobbiamo standardizzare i processi ed evitare variazioni nell’esecuzione dei servizi come base dell’affidabilità della promessa di mercato, per poi personalizzare e creare maggior valore per i clienti cha hanno bisogni individuali specifici e che sono disposti a pagare per questo, divenendo leali al brand, alle strutture ed alle destinazioni.

Addio semplici e tradizionali rendite di posizione…

L’evoluzione richiede un impegno sul piano delle competenze, appunto non più come rendite di posizione che sono legate alla naturale anzianità nei ruoli, ma come costante impegno all’apprendimento continuo, alla contaminazione delle buone pratiche e alla capacità di utilizzo di strumenti di analisi e di indicatori di performance, per misurare dove eravamo e dove vogliamo andare. L’Italia è un Paese che poggia sul turismo, ma che non ha costruito un progetto omogeneo di formazione per la filiera dell’ospitalità, sorpassata da decadi di Università e scuole di formazione specifiche di altri Paesi europei che hanno attratto talenti e li hanno inseriti nel mondo del lavoro.

Adesso proprio a Venezia sta nascendo una nuova scuola.

Benissimo. Abbiamo bisogno di coraggio e di idee come quella promossa da TH Resorts e Cdp sulla Scuola di Ospitalità in collaborazione con Cà Foscari, un esempio che avvicina la formazione universitaria e master guardando ai modelli europei, un esempio al quale il mondo di Federturismo Confindustria guarda con favore, mettendo a disposizione la rete delle medie e grandi strutture dei brand dell’ospitalità come osmosi di progetti, testimonianze, stage e placement possibili. Il New Normal deve ripartire dalle competenze, dai talenti e dalla cultura di impresa per poi sostenere i cambiamenti nei modelli delle destinazioni, nuovi job da Destination managers a Experience Product Managers, a Manager della sostenibilità, a Destination Concierge, a Digital Butlers e persino a Healty and safety Managers, che sappiano attivare la prevenzione e reagire in caso di emergenze, contribuendo a rinforzare l’elemento fondamentale del travel oggi in sofferenza, ovvero la fiducia.

Fiducia che passa attraverso la comunicazione, la reputazione su social e media, e oggi anche il rigore dei protocolli adottati. Allo Stucky com’è la situazione?

L’hotel oggi è chiuso, riaprirà due ali nei primi giorni di luglio. Abbiamo adottato formidabili misure di sicurezza e abbiamo fornito a tutti idonei percorsi di formazione on-line. Contiamo nel concierge digitale, nei menù sostenibili per food & beverage, nel rilancio – appena sarà consentito – del centro congressi, che sarà tarato su 280 partecipanti, sui 1000 potenziali, e proporrà anche presenze virtuali. In primavera abbiamo ultimato il restauro completo di metà struttura, recuperando stili e arredi d’interni che rievocano l’attitudine industriale del Molino: ci sono stanze nuove a disposizione dei clienti. Adesso confidiamo nel turismo di prossimità europeo, con la ripresa dei voli internazionali di Klm, Aeroflot, AirFrance, BA, Lufthansa. E stiamo predisponendo percorsi esperienziali nella città, anche in alternativa all’area marciana, simbolo di overturism spinto. Questa è la nostra strategia, in attesa di quella dell’intero comparto e del new normal delle destinazioni.

(Alberto Beggiolini)

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