La bilancia pende. Da una parte, c’è un 30% dato dal numero delle imprese turistiche italiane già attrezzato tecnologicamente (si parla di e-commerce). Dall’altra, c’è il 70% che rappresenta la percentuale dei turisti che usano il web per prenotare la struttura ricettiva dove soggiornare in Italia. Un gap evidente, fotografato da Unioncamere e illustrato a Firenze, al BTO – Buy Tourism Online, il principale appuntamento italiano di networking tra operatori e aziende sul turismo digitale, nato nel 2008 come incontro tra gli operatori del turismo e i fornitori delle tecnologie che hanno radicalmente e rapidamente trasformato il settore.



Il grave ritardo è stato confessato dai test di “autovalutazione della maturità digitale” sottoposti a 1.200 imprese del settore attraverso le Camere di commercio. Dati che confermano, ancora una volta, che il percorso digitale è, e sarà sempre più, una straordinaria leva di competitività per intercettare il crescente flusso di viaggiatori internazionali che nei prossimi dieci anni raggiungerà 1,8 miliardi di persone (stime dell’Organizzazione mondiale del turismo).



Il panorama è comunque assai poco omogeneo: il 14% degli operatori testati viene definito “esordiente”, perché ancorato a una gestione tradizionale dell’informazione e dei processi; il 56% è “apprendista”, con un livello basico di utilizzo degli strumenti digitali; il 23% è “specialista”, avendo informatizzato una buona parte dei processi; il 5% è “esperto”, applica cioè con successo i princìpi dell’Impresa 4.0; mentre appena il 2% è “campione”, con una digitalizzazione avanzata dei processi e ricorso a tecnologie 4.0.

Al BTO di Firenze uno dei panel più seguiti è stato proprio quello dedicato a “Innovazione e hospitality: quali leve per la competitività del turismo in Italia”, basato sul lavoro, tra gli altri, di Paolo Debellini, head per ricerca e sviluppo di ThResorts, il gruppo leader del settore leisure in Italia.



“L’obiettivo – ha spiegato Debellini – era quello di entrare nel mondo delle aziende innovative, capire chi sono e con che logiche operano. Abbiamo quindi mappato i movimenti nell’ultimo decennio di 253 start up internazionali nel settore del tech tourism, e 12 tech giants, ossia quelle che una volta erano start up e che sono diventate dei colossi come Google, Booking, Expedia o Airbnb. Inoltre, per la parte qualitativa, abbiamo intervistato 15 esperti di settore”.

Dall’indagine sono emerse tre distinte tipologie di aziende innovative. “La prima l’abbiamo denominata ‘aggregatori’, che non sono altro che aziende per lo più B2C, che grazie alle dinamiche di internet aggregano dati, mettendoli a disposizione dell’utente finale con una experience lato utente di altissimo livello, stando fuori da dinamiche labour intensive tipiche delle strutture ricettive. Pensiamo ad Airbnb, che aggrega appartamenti e modularizza la prenotazione, oppure a Booking o Expedia, che fanno la stessa cosa in particolare con alberghi, ma anche con esperienze. Il modello di business principale di questi aggregati è il marketplace”.

E la seconda? “È data dalle aziende che abbiamo chiamato ‘integratori’ – ha specificato Debellini -. Aziende B2B che si inseriscono nella bottom-line delle strutture ricettive con lo scopo di migliorare i processi e fornire un servizio personalizzato all’utente finale. Queste aziende sono CRM come salesforce o PMS come Mews o Ideas”.

Infine, la terza macro categoria. “Sì, minore rispetto alle altre due: si tratta degli ‘ibridi’, aziende che hanno elementi sia degli aggregatori che degli integratori”.

Bene, da tutto questo sono emerse alcune linee guida: gli investimenti maggiori vengono realizzati negli aggregatori. In questo caso buona parte del capitale va per il supporto alla crescita, ma gli aggregatori necessitano spesso di molti più capitali rispetto agli integratori per arrivare o consolidare le loro posizioni di monopolio.

In secondo luogo, le grandi aziende del tech stanno aumentando sempre più la loro presenza su tutta la travel journey. Se una volta Expedia o Booking si occupavano solo di alberghi, oggi si stanno espandendo su metasearch, portali di prenotazioni per voli, experience e quant’altro. E questa espansione è portata avanti principalmente con acquisizioni o partecipazioni strategiche nelle start up.

Infine, alcune aziende stanno ridefinendo o provando a ridefinire modelli tradizionali come quello del franchise. Se per fare il signing di un albergo normalmente ci vogliono 10-11 mesi, grazie a complessi algoritmi e operation super efficienti, oggi si riesce ad aggiungere un albergo al proprio network in soli 10 giorni.

“Quello che si evince chiaramente dall’indagine – ha precisato Debellini – è che aggregatori, integratori o ibridi hanno un pattern comune, ossia la centralità del cliente, che è diventato il vero asset, sostituendo il canale distributivo, che per via di internet è sempre più una commodity. Oggi si possono individuare tre driver principali del cambiamento: la necessità di fare sistema e quindi di allacciarsi a circuiti più grandi che mettono a disposizione l’infrastruttura tecnologica e commerciale. Un secondo driver è la personalizzazione, e quindi lo shift da prodotto a esperienza. Il cliente vuole sempre più un’esperienza unica e autentica, non si accontenta di una buona bottiglia di vino, vuole anche che sia servita all’interno di un contesto esperienziale che la possa esaltare. La tecnologia qui gioca un ruolo fondamentale grazie alla iper segmentazione di dati che porta all’unicità richiesta dal cliente. Infine, la sostenibilità: i maggiori sforzi sono fatti a tutt’oggi su risparmio energetico, gestione risorse idriche e prodotti sostenibili. Anche in questo caso la tecnologia ha un peso fondamentale grazie a sistemi che consentono risparmio ed efficienza. Ma in questo contesto anche la strada del co-engagement con il cliente è sempre più critica con importanti ripercussioni positive anche a livello di brand identity e marketing. Su questo ci sono aziende tech che stanno facendo un lavoro eccezionale, mettendo a disposizione del cliente una piattaforma, educandolo ad aver coscienza e a migliorare i propri consumi”.

Insomma, si ritorna a puntare il dito sulla tecnologia, ma ancora oggi in Italia si registra un difficile passaggio da un tech stack chiuso e obsoleto a uno in cloud, che ha maggior flessibilità e costi più accessibili. Questo passaggio è però necessario al fine di mettere il cliente al centro. Il passaggio è reso ancora più difficile dai legacy systems, che rendono la transizione complessa, e dalla fiscalità italiana.

“Purtroppo oggi in Italia – ha ammesso Debellini – c’è ancora scarsa fiducia nella tecnologia, paura da parte degli imprenditori di perdere il controllo, e al tempo stesso poca trasparenza da parte dei tech provider, soprattutto quelli meno innovativi”.

Quindi, urgono nuovi investimenti in questo senso. “Sì, ma un investimento senza la giusta formazione viene vanificato completamente. L’innovazione parte infatti dalle preferenze dei clienti, piuttosto che dal tentativo di prevederle. Se vogliamo veramente innovare, un sistema top down, burocratizzato, con gerarchie e status rigidi non può funzionare. Serve un sistema con obiettivi e metriche chiare, trasparenza e dialogo. La rivoluzione tecnologica è innanzitutto una rivoluzione culturale e di mindset”.

Qualsiasi rivoluzione culturale, però, deve necessariamente iniziare dalla presa di coscienza della propria fisionomia, di cosa si vuole diventare e come. “È il fattore più importante – ha osservato Debellini -. Nell’indagine abbiamo definito una scala dell’innovazione a tre livelli che tengono conto delle risorse e degli obiettivi delle aziende: un livello base indicato per le aziende piccole, un livello competitività per aziende medie e un livello di alta innovazione per i grandi gruppi o per i consorzi. Per una Pmi non serve pensare a intelligenza artificiale, machine learning e neural net. Un sistema di booking super avanzato non ha senso per un piccolo albergo e non lo avrà mai, tanto più quando le Ota mettono già a disposizione tutto ciò che serve. Spesso gettarsi su app e sistemi evoluti equivale a crearsi in casa il sistema operativo dell’i-phone senza possedere le capacità e le risorse per tenerlo aggiornato e integrato con le nuove app che man mano vengono fuori. È questo il caso in cui la tecnologia manda l’azienda out of business. Il discorso ovviamente cambia quando l’azienda cresce a volumi e fatturati importanti, che danno la possibilità di creare e sostenere anche i sistemi all-in-one più avanzati”.

Nessuna speranza per gli operatori individuali? “No, tutto questo non implica che i piccoli siano destinati al fallimento. Anzi, negli anni gli strumenti messi a disposizione dalle start up anche per le piccole aziende si sono moltiplicati: oggi si può fare bene anche con poche risorse. Sistemi di reputation a 50 dollari/mese, Pms a 7 dollari a stanza senza set-up feed, gli esempi non mancano. Quello che però è emerso da questo rapporto è che per quanto le aziende tech e le aziende ricettive abbiano bisogno le une delle altre, ad oggi il dialogo, la comunicazione resta ancora modesta. Da un lato, le aziende ricettive vedono le aziende tech come potenziale minaccia; dall’altro, le aziende tech faticano a capire l’heritage delle aziende ricettive e a essere completamente trasparenti. Oggi, per poter creare valore e crescere insieme, questa comunicazione deve migliorare. E deve arrivare a eccellere”.