Turismo, nessuna buona notizia. Il fuoco di agosto si sta rivelando fatuo, puntuale, senza effetti sostanziali su un trend che complessivamente si conferma negativo. Confturismo e Assoturismo (le due rappresentanze che fanno capo rispettivamente a Confcommercio e Confesercenti) sostengono che, anche considerando i dati estivi, ristorati dal mercato interno, il 2020 s’avvia a un bilancio gravato dall’emorragia di 65 milioni di presenze in meno (quasi tutte dall’estero) e 100 miliardi di perdite.
Ma il turismo, tra le tante malattie che lo affliggono, soffre anche di una palese crisi di nervi, se non addirittura piena schizofrenia: pre-Covid si accusava l’over-tourism, l’iperaffollamento che asfissiava le maggiori città d’arte, svuotandole poco a poco dei residenti e lasciandole prede di vacanzieri, stanze d’affitto e piccoli commerci di souvenir made in China. Oggi, con le città deserte, si piangono le perdite e si studiano gli incentivi per ripristinare quei flussi, possibilmente in misure più sostenibili.
Difficile raggiungere i giusti equilibri, considerando anche le mutazioni che hanno caratterizzato gli ultimi dieci anni (ma forse i cambiamenti sono stati ancora più rapidi) nella ricettività delle città d’arte italiane. L’Italia del 2009 contava circa 34 mila alberghi, che nel 2019 erano diventati 32 mila. E quindi, come si giustifica l’over-tourism? Dove pernottano (oggi è bene dire “pernottavano fino all’anno scorso”) le frotte di turisti? Ovviamente nelle camere o negli appartamenti da affitti brevi, troppo spesso brevissimi. Nel 2009 Airbnb contava 457 proposte, oggi oltre 300 mila. Esempio: a Milano in dieci anni gli alberghi sono diminuiti (-29), Airbnb è passata da quasi zero a circa 17 mila proposte; a Venezia (sempre meno città e sempre più parco tematico, da decenni in polemica con le grandi navi, e oggi in ginocchio perché non arrivano più) numero di alberghi stabile, ma settemila appartamenti in più.
L’over-tourism sta esattamente in questi numeri, nei flussi non gestiti, nel lassismo che è stato tollerato nel non fare rispettare le regole. Regole che però prevedono: “per contratto di locazione breve si intende un contratto di locazione di durata non superiore a 30 giorni, di immobili ad uso abitativo, che viene stipulato da persone fisiche”. È piuttosto evidente che sarebbe stato più opportuno indicare, oltre alla durata massima, anche quella minima, possibilmente non inferiore ai 7/10 giorni. Senza arrivare agli estremi olandesi, con Amsterdam (e altre città) che vieta in gran parte della città gli affitti brevi, e per gli Airbnb consentiti rilascia particolari, e restrittive, licenze (per un massimo di 30 giorni all’anno disponibili). Le case d’affitto, insomma, dovrebbero offrire soggiorni medi più consistenti, lasciando agli alberghi le permanenze inferiori, in un completamento differenziato della ricettività che consentirebbe comunque libertà di scelta, ma nello stesso tempo anche una selezione migliore dei flussi. Così si otterrebbe anche una provvidenziale salvaguardia delle strutture di hotellerie (che stanno faticosamente cercando di sopravvivere a questo 2020, spesso non riuscendoci), delle garanzie per i turisti (prezzi congrui e appartamenti sicuri, senza vorticosi ricambi che possono non assicurare le necessarie sanificazioni), della natura stessa delle case d’affitto (che non possono in alcun modo credersi alberghi).
Il turismo è un sistema economico complesso: mai come in questo pessimo 2020 si è potuto constatare in quanto poco tempo possa dissolversi, e quanto fragile si possa rivelare di fronte a un solvente microscopico quanto un virus. Le città d’arte stanno pagando il conto più salato, ma le sofferenze sono ancora lontane dalla fine. Basti ricordare che giovedì prossimo inizierà l’ormai tradizionale Borsa del turismo delle 100 città d’arte e dei borghi d’Italia, che però arriva alla sua 24esima edizione bolognese in modalità tutta on-line. Un brutto segno dei tempi. Tempi che non consentono ottimismi nemmeno dopo il varo del Decreto agosto, dove è stato previsto un fondo di 500 milioni di euro per aiutare le città. Ne sono state menzionate 29, con assenze vistose che non hanno mancato di suscitare violente polemiche (dalla lista, tra le tante, manca ad esempio Assisi, che com’è noto non prospera esattamente grazie a industrie pesanti o floridi terziari avanzati).
Il contributo, a fondo perduto, andrà “alle attività di impresa di vendita di beni o servizi al pubblico dei centri storici dei comuni capoluogo di provincia o di città metropolitana che, secondo le ultime rilevazioni effettuate dall’Istat, hanno registrato prima del virus presenze di turisti stranieri in numero almeno tre volte superiore a quello dei residenti”. L’importo massimo del contributo erogabile è di 150 mila euro, che comunque non potrà essere cumulato dai ristoratori con l’altro bonus previsto dallo stesso decreto, il contributo per chi sostiene la filiera del Made in Italy al 100 per cento.
500 milioni per tutte le città d’arte italiane (che, va detto, non sono solo quelle più note) sembrano oggettivamente ben poca cosa. Adesso si resta in attesa di altre provvidenze, magari quelle regionali, che in ordine sparso sono state già annunciate un po’ ovunque. Ma pensando oltre i confini dell’immediato domani, e andando al di là delle politiche dei bonus, in vago odore propagandistico, bisognerebbe forse invocare soprattutto misure strutturali, di lungo respiro, in grado – come si diceva – di restituire alle città flussi turistici più organizzati, meglio distribuiti nei territori di destinazione e nelle stagionalità, e demotivare il mordi&fuggi con una proposizione di offerte, specialità, esperienze tipiche e irripetibili, e con una varietà di listini controllati in grado di scongiurare le trappole per visitatori distratti o stranieri inconsapevoli. Un turismo meglio organizzato, anche grazie alla digitalizzazione di strutture e operatori, potrebbe tonificare il settore attrezzandolo per superare le crisi meglio di quanto sta succedendo oggi.