La corsa inconsapevole verso la rimozione delle distanze e dell’altrove sta subendo nel turismo – termometro del vivere sociale – nuove restrizioni, che ridimensionano il mondo percorribile in una riduzione che evita le zone calde, quelle a rischio, dove lo stridore delle contraddizioni genera scontri culturali, economici, religiosi. È la nuova geografia del pericolo che ci lascia un mappamondo più piccolo, dove i travel warning sconsigliano Paesi e territori sempre più vasti, dal centro-sud America al Sahel, al vicino e medio oriente, all’est europeo, ai Balcani, a intere zone dell’Indonesia, alla Birmania, al centrAfrica, ad Haiti, a certe regioni dello Sri Lanka…
La globalizzazione è evaporata per i conflitti, le violenze, gli Stati canaglia e gli antistati che surrogano l’incapacità di gestione pubblica, e il terrorismo, ad esempio, con la sua chiara ragione sociale, ne è la prova più violenta. Anche la sospensione dello spazio Schengen, con il ripristino in nove Paesi europei (Italia compresa) di controlli ai confini, testimonia lo stato dell’arte. Un’arte brutta, di confini e muri, simile ai blocchi della guerra fredda, con in più gli esodi tragici nel Mediterraneo, sulle rotte balcane, o anche da Salvador o Messico verso gli Stati Uniti. È complessivamente un risveglio brutale: ci si era ormai abituati alle prossimità di ogni mèta regalate dal fiorire dei trasporti aerei a basso costo, e invece bisogna ridimensionarsi al piccolo mondo che si pensa ancora possa considerarsi sicuro.
In tutto ciò, l’Organizzazione mondiale del turismo (UNWTO) ci informa dei Paesi meno visitati, che ovviamente risultano essere anche quelli più remoti, di difficile approccio se non con viaggi lunghi e costosissimi. Un report che può alimentare insomma sogni impossibili, più che aiutare davvero nella scelta delle destinazioni.
Un esempio? L’elenco dell’organizzazione mette al primo posto tra i Paesi meno visitati al mondo Tuvalu, in precedenza conosciuto come Isole Ellice, a mille chilometri a nord delle Figi, nell’Oceano Pacifico centro-occidentale: meno di 3.700 visitatori all’anno. Nell’elenco anche la Guinea-Bissau (52mila visitatori all’anno); le isole Comore, al largo della costa sud-orientale dell’Africa (45mila turisti); São Tomé e Príncipe, nel Golfo di Guinea (34.900 turisti); le isole Salomone, nel Pacifico sudoccidentale (29mila); Montserrat, a est dell’America centrale, nelle Piccole Antille (19.300 visitatori); le isole della Micronesia, sparse nell’Oceano Pacifico settentrionale (18mila visitatori); Kiribati, 32 atolli e un’isola corallina sopraelevata tra l’Australia e le Hawaii (12mila); Niue, nel Pacifico meridionale (10mila turisti); le isole Marshall, 29 atolli corallini e cinque isole coralline (6100 visitatori).
È chiaro che se sono queste le destinazioni meno frequentate, e probabilmente proprio per questo anche quelle più incontaminate, il motivo è scontato, e sta proprio nel loro isolamento geografico: se Venezia si trasferisse nel mezzo del Pacifico con tutta probabilità non soffrirebbe più di overtourism. Ma al di là delle facili suggestioni fornite dagli esperti UNWTO, sarebbe bene programmare invece le strategie più adatte per affrontare il nuovo “mondo in scala” che si diceva, ottimizzando le governance dell’accoglienza per l’incoming (di fatto favorito in simili scenari), e tracciando le traiettorie migliori per i travelers outgoing di casa, cercando di vincere psicosi e incertezze, fornendo informazioni corrette e accompagnamenti sicuri nelle mète preferite. Perché i primi muri da scalare sono spesso quelli che ci costruiamo nella nostra testa, contrari all’unità – come sosteneva Marc Augé, il filosofo francese che stigmatizzò il “non-luogo” – come eliminazione di distanze e differenze, una tensione che implica la rimozione del male, della violenza, del pericolo. Non si tratta di viaggiare in incoscienza, ma di valutare senza pregiudizi le destinazioni: anche così si può contribuire a sostenere l’ecosistema turismo.
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