Regolamentazione della professione di guida turistica, piano strategico del turismo, mappatura delle concessioni balneari: questa, in sintesi, sarebbe la rivoluzione copernicana elaborata dal ministero del Turismo per una nuova “visione industriale che verrà attuata in stretto rapporto con le Regioni”.

Allora vediamola da vicino, questa rivoluzione.



Punto primo, le guide turistiche. Se ne parlava da tempo, adesso sembra che il Governo sia intenzionato ad abolire l’abusivismo (fiorito in troppi anni di vacanza legislativa): per accompagnare i turisti d’ora in poi bisognerà superare un esame di abilitazione nazionale indetto ogni anno dal ministero del Turismo (prove scritte, orali e tecnico-pratiche). Solo chi lo supererà verrà inserito in un elenco nazionale delle guide turistiche, le uniche abilitate alla professione. Soddisfazione dei diretti interessati (sono circa 20 mila le guide italiane abilitate, rappresentate da GTI, guide turistiche italiane, Agta, associazione delle guide turistiche abilitate, Angt, associazione nazionale guide turistiche, e forse qualcun’altra associazione locale…) che aspettavano da oltre dieci anni un riordino del loro settore. Ma sembrano ancora oggi attuali le osservazioni avanzate l’anno scorso, nelle prime valutazioni sul ddl in elaborazione: bisogna precisare, ad esempio, i titoli di accesso validi, come saranno strutturati gli esami, chi li organizzerà e dove, le commissioni, chi rilascerà le abilitazioni, i compiti del ministero e quelli delle Regioni. Da chiarire anche la classificazione tra abilitazione e idoneità, il meccanismo sanzionatorio per chi persegue l’attività abusivamente, i titoli d’accesso, le normative per le guide provenienti dall’estero. Il nuovo ddl, insomma, ha esplicitato l’obiettivo, adesso manca la messa a terra, rinviata ai prossimi decreti attuativi. Dunque, si vedrà.



Punto secondo, il piano strategico, che varrà da qui al 2027. Una nota del Governo chiarisce che “si presenta un’analisi approfondita del settore e dei suoi segmenti, delineando una politica basata su un rapporto sinergico tra ministero, Regioni e portatori d’interesse, al fine di favorire l’incremento dell’occupazione e l’impatto sul Pil in termini strutturali”. Com’è noto da tempo (lo annunciavamo su queste pagine già lo scorso maggio), il piano è basato su cinque punti volti a promuovere la competitività del settore e attestare l’Italia come player internazionale di riferimento: governance (definizione di un modello condiviso di governance e monitoraggio tra le Regioni e lo Stato, attraverso l’intervento del ministero); innovazione (digitalizzazione dei servizi sia interni che esterni per rafforzare un turismo digitale, consentendo di mettere a sistema il variegato mondo del turismo, per offrire servizi innovativi e sicuri al turista); qualità ed inclusione (accrescimento della qualità e quantità dei servizi offerti, realizzazione di campagne di promozione dell’intera filiera turistica italiana, che puntino sul brand Italia, revisione degli standard di qualità e inclusione delle strutture ricettive, istituzione di una certificazione rilasciata dal ministero del Turismo, in modo da consentire una maggiore omogeneità dell’hospitality industry soprattutto a livello internazionale); la formazione e, come visto, le carriere professionali turistiche; sostenibilità (intercettando sia nuovi segmenti interessati a una più autentica e sostenibile modalità di fruizione delle destinazioni, sia turisti alla ricerca di esclusività, declinata in molteplici formule turistiche). Nel percorso di realizzazione del Pst il ministero sottolinea il ruolo del Tourism digital hub, l’infrastruttura digitale finanziata con i fondi Pnrr per innovare e connettere digitalmente la domanda e l’offerta turistica, e quello delle Regioni, nell’ambito di un modello permanente e condiviso di governance e monitoraggio Stato-Regioni.



Dunque: governance e modello permanente fin da subito, e al di là di ogni buona intenzione, sembrano utopistici, vista la frammentazione delle competenze in ambito turistico maldestramente stabilita dalla riforma del Titolo V della Costituzione, con la gestione di risorse e normative appannaggio delle Regioni e un generico coordinamento affidato allo Stato. Per quanto riguarda qualità ed inclusione (stendendo un velo sulla comunicazione del brand Italia e le polemiche sulla campagna Open to meraviglia), si ignora distrattamente che entrambe sono a carico degli operatori, a meno di prevedere sostanziosi incentivi mirati per gli stessi. Idem dicasi per la sostenibilità. Resta insomma la formazione, con la riforma per le guide: vedi sopra. E si spera nell’hub per domanda-offerta: si spera nel Pnrr.

Punto terzo, i balneari. Qui si raggiunge la vetta della “rivoluzione”, con il via alla mappatura dell’esistente, già stabilita dal Consiglio dei ministri dello scorso settembre (Governo Draghi). L’obiettivo oggi non detto ma risaputo è aggirare ancora una volta la direttiva europea per la messa a gara delle concessioni balneari, sulla base dell’accertamento (tramite la mappatura) della non-scarsità del bene in oggetto, e cioè spiagge e litorali. Un’abbondanza che escluderebbe l’applicabilità della Bolkestein. Di fatto, è ancora una volta una bandiera bianca alzata da un Governo (mica solo questo, si pensi anche ai precedenti) che di fatto resta ostaggio di lobby e portatori di interessi vari (mica solo balneari, si pensi anche ai tassisti, per esempio). Perché l’interesse vero del Paese sembra diverso e allineato con i principi di trasparenza ed equità che l’Europa ci chiede, ma che qui invece…

Concludendo, la sbandierata rivoluzione, più che a un piano industriale, somiglia a un paravento dietro cui nascondere l’incapacità o l’impossibilità di mettere davvero mano all’hospitality and travel industry italiana, settore dal 13% di Pil ma dal quasi zero per cento di sforzi pubblici concreti e idonei a traghettare davvero il settore a nuovi livelli di competitività e qualità. Obiettivi che non potrà mai risolvere un solo ministero, anche se dedicato, ma che dovrebbero essere affrontati in modalità multitasking: dal calendario scolastico direttamente incidente sulle vacanze ai percorsi di formazione degli addetti, dagli incentivi fiscali necessari per contrastare la carenza del personale alle facilitazioni per la creazione delle indispensabili staffhouse, dalle misure per far emergere il sommerso alle misure premiali per le aggregazioni d’impresa che possono garantire maggiori solidità finanziarie e più capacità di confronto con i competitors stranieri. La lista sarebbe ancora lunga, tanto quanto la filiera del settore Horeca. Ed è per questo che qualsiasi piano strategico rischia di restare un elenco di bei propositi, tutt’al più un semilavorato, se non si riesce a coordinare altrettanti piani tattici quanti sono gli ambiti da “rivoluzionare”.

Il turismo in Italia è una risorsa incredibile, e il traino generato post pandemia sull’intera economia lo dimostra. Si può anche decidere che va bene così, che non c’è bisogno di fare niente visto che il comparto è il più bell’esempio di resilienza possibile, per di più l’unica industria veramente non delocalizzabile. Il fatto, però, è che il cliente cambia, il turista del 2023 non è quello di vent’anni fa, e le sue aspettative crescono: la pensione Serena (ogni riferimento a una vera pensione Serena è puramente casuale) non può andare avanti senza una revenue management, una gestione dinamica dei prezzi, un’offerta di servizi ed esperienze, policy di sostenibilità, una ristorazione che non si basi solo su rigatoni al sugo. Ma non si può cambiare l’impresa se non si cambia prima la cultura d’impresa, concetto che non vale solo per le grandi imprese, ma anche per le gestioni familiari (la stragrande maggioranza in Italia), che possono altrettanto accedere a maggiore qualità ed efficienza. Qualsiasi piano del turismo, insomma, dovrebbe partire proprio da qui, dalle basi: ogni manager ha iniziato da scuola, formazione, cultura. Questa è la vera priorità, il resto viene dopo.

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