Due tracce segnano il cammino che il turismo deve intraprendere per ultimare la convalescenza post-pandemia. La prima: uscire dalla scelta tra incentivare gli arrivi “comunque”, o contingentare le presenze, aumentando la qualità dei servizi e aggiustando i listini di conseguenza. La seconda: invertire il vecchio adagio delle mamme “questa casa non è un albergo” in “questo albergo è come una casa, la tua”.



La prima traccia incide direttamente sui flussi, sull’overtourism, su quel “nulla sarà più come prima” che si diceva durante i lockdown, e che invece adesso si è rivelato una stupidaggine, viste le presenze dell’estate e quelle, massicce, del ponte di novembre, senza che si sia fatto niente di particolare. Tutto sembra esattamente come prima, o più di prima, e sono tantissimi gli operatori dell’industria del turismo che ovviamente sorridono, rinfrancati dagli incassi, anche se bollette e inflazione stanno sostituendo il Covid nei loro incubi. E nei loro bilanci. Ma al di là di queste nuove minacce, si sta tornando esattamente a dov’eravamo rimasti, né più né meno, forse solo con più consapevolezza della volatilità dell’intero sistema, cosa che porta a sfruttare il più possibile un oggi munifico e a pensare poco alle pianificazioni future, vista l’estrema dipendenza da fattori esterni, sui quali nulla si può.



La strada è rodata e difficile da dirottare, anche data la sostanziale indifferenza della governance, che invece sarebbe chiamata a pilotare il settore sul bilanciamento qualità-quantità. I test migliori, in questo senso, si fanno a Venezia, la città d’arte sul podio delle più visitate d’Italia, e anche quella che maggiormente soffre (ha ricominciato a soffrire) di overtourism, con i fastidi relativi per i residenti, ma anche per gli stessi turisti, intruppati tra code e sfruttamenti intensivi da parte di un commercio spremi-forestieri, con un inevitabile, generale degrado di tutta la città insulare. Qui la quantità, ovviamente, vince sulla qualità, mentre si tenta di correre ai ripari con i ticket d’ingresso, le prenotazioni, o i flussi programmati in fasce orarie invocati dallo stesso neo sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi.



Si prova a setacciare, insomma, ma non si fa ancora nulla affinché quei turisti che sceglieranno Venezia accettando di mettersi in lista d’attesa, di pagare ticket e via dicendo, possano trovare poi una qualità di servizi migliore, che ripaghi dell’investimento e della pazienza. Sempre che il tutto funzioni, si andrà incontro, insomma, solo ad una rarefazione, una diluizione dei flussi, ovviamente necessaria, ma senza alcunché sull’altro piatto della bilancia: sarebbe come se gli abbonati a un canale pay-tv vi vedessero poi film interrotti dalla stessa pubblicità invasiva che disturba i canali generalisti.

La seconda traccia implica l’emancipazione della cultura d’impresa degli operatori del settore. Un’evoluzione che passa attraverso la formazione, la disponibilità, l’innovazione e l’utilizzo dei nuovi strumenti digitali disponibili. Oggi è possibile conoscere in anticipo gusti, abitudini, preferenze degli ospiti ancor prima del loro arrivo; da qui si può modulare l’hospitality di conseguenza, appunto per far sì che l’albergo abbia l’appeal di casa. “Migliorando sempre più i servizi che quel tipo di turista predilige. Bisogna quindi creare un ambiente sociale molto simile a quello che gli ospiti hanno vicino a casa, il che significa territori con meno auto possibili, più biciclette e mobilità sostenibile. Come si è ormai abituato tutto il centro-nord Europa. In secondo luogo bisogna attirare più la fascia anziana, che rappresenta una fetta enorme di turisti e che solo in parte il Veneto attrae, al contrario di altri Paesi come Spagna e Portogallo”, sostiene il sociologo Paolo Feltrin nel recente dossier “Società, economia locale, pianificazione strategica”.

Ed è lo stesso Feltrin a dire se davvero “nulla sarà come prima”. “Sì e no – sostiene – come la marea, che costantemente modifica la spiaggia, e come le mareggiate che la sconvolgono, anche la pandemia è stata una mareggiata. Questa situazione deve indurre a investire per essere più forti, più reattivi alla prossima crisi: dalla ricerca emerge, in molti interlocutori, consapevolezza e volontà d’azione”.

Ma si deve “smettere di pensare che il turismo possa bastare da solo all’economia dei territori”, sostiene Roberta Nesto (come riporta Mondobalneare), presidente della Conferenza dei sindaci del litorale veneto. “Dobbiamo guardare sempre avanti, continuare a investire e trovare la forza di proporre sempre alternative, come hanno fatto i nostri imprenditori. Bisogna iniziare a ragionare come destinazioni: non bastano più le strutture da sole e gli imprenditori da soli, ma serve creare sempre nuove opportunità, e lo si può fare creando reti tra pubblico e privato. Quello che emerge è l’esigenza di avere infrastrutture più adeguate, migliorare l’accessibilità alle nostre località e pensare a un turismo più sostenibile, ma anche e soprattutto creare reti”. Sarebbe ora.

Nell’attesa, e nella speranza che quest’attesa non sia un nuovo deserto dei Tartari, sarebbe anche bene dirimere il nodo delle competenze, sempre frazionate tra Regioni e Stato dal titolo V della Costituzione, che nella riforma del 2001 ha assegnato alle prime l’esclusività per quanto riguarda il turismo. Si è poi ripetutamente cercato di mitigare il tutto attraverso la conferenza tra i due organi, arrivando a una gestione di fatto congiunta della materia, rinviando una definizione più precisa delle deleghe a un’invocata riforma della riforma.

Ovviamente, non se n’è fatto ancora nulla, anzi: la rinascita del ministero del Turismo ha, se possibile, incrementato ancora di più le frizioni, con il pericolo di sovrapposizioni e di opportuni scarichi di responsabilità. Ma volendo mantenere, come sembra, un ministero dedicato al comparto che garantisce più del 13% del Pil, sembrerebbe davvero indicata quella controriforma, che ristabilisca nettamente gli ambiti di intervento tra Regioni e Stato. La posizione ufficiale è che il ministero ha compiti di coordinamento, di promozione complessiva, di stimolo, e naturalmente ha avuto ruolo nella ripartizione dei sussidi Covid. È senz’altro così, ma sembra poco, più o meno come le funzioni residue delle amministrazioni provinciali, che sono state dismesse, anzi no, ma quasi. La realtà dice che il turismo italiano avrebbe forse bisogno di una rappresentanza federale, che riunisse i portavoce di tutti i territori ad uno stesso tavolo, con presidenza turnata, e con la partecipazione dei maggiori stakeholders, di volta in volta portatori degli interessi della lunga filiera del comparto, e delle associazioni di consumo.

Da quel tavolo (con i relativi focus: coste, montagne, città, ospitalità, servizi e via dicendo) potrebbero nascere le ripartizioni dei fondi, le istanze comuni, i coordinamenti, mentre le funzioni di promozione nazionale all’estero andrebbero affidate a organi tecnici dedicati. Certo, un tessuto simile potrebbe anche essere ordito sul telaio del ministero, con un ministro chairman super partes, ma nel breve periodo dalla ricomparsa del dicastero (praticamente, poco più di un anno) non sembra che si sia andati in questa direzione. E ancora oggi non sembra vi siano idee chiare, se non quella di crogiolarsi nella resilienza naturale del settore, in un’inerzia pericolosa che non fa ben sperare.

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